Quando
Daniele Manacorda propose di ricostruire l’arena del Colosseo, facendo storcere
il naso a molti colleghi archeologi, il ministro Franceschini ne rimase
entusiasta. Ed proprio lo svecchiamento della concezione del patrimonio
archeologico che il docente dell’Ateneo Roma3 suggerisce per il rilancio della
politica dei beni culturali anche in Sicilia.
Manacorda
chiama in causa i “sacerdoti della cultura” colpevoli di mummificare siti e
musei e, così, di contribuire alla mancata conoscenza e valorizzazione del
patrimonio dell’Isola che da solo rappresenta un quarto di quello dell’intera
Penisola.
<La
Sicilia – dice Daniele Manacorda – ha una storia culturale talmente rilevante
che non vi è civiltà che non ne abbia lasciato le sue tracce più importanti. Dalla
preistoria in poi, non esiste fase storica che non abbia lasciato tracce
facendo sì che l’Isola sia un paradigma di potenzialità del Mediterraneo:
potrebbe essere l’esempio più emblematico di ricchezza monumentale e paesistica>.
Eppure, la Sicilia resta ai margini della politica culturale del Paese anche a
causa dell’autonomia gestionale che, secondo alcuni intellettuali come
Salvatore Settis, ha allontanato la Regione dalla Stato con conseguenze nere in
termini di gestione del patrimonio. <Ho sempre considerato un valore in
Sicilia – dice l’archeologo – il fatto di aver unificato le soprintendenze convinto
che il patrimonio vada valorizzato e gestito nella sua unitarietà, senza
divisioni didattiche. La Sicilia, a differenza del resto dell’Italia, ha superato
l’arretramento didattico che divide l’archeologia dalla storia dell’arte,
eccetera. In Sicilia si è scelto uno strumento innovativo con la Soprintendenza
territoriale che si occupa dell’intero patrimonio archeologico, artistico e
naturalistico, tuttavia quel che non ha funzionato è stata la sua gestione ma
ciò a causa degli annosi problemi dell’amministrazione siciliana, troppo politicizzata>.
Professore,
lei si occupa di archeologia in una città simbolo qual è Roma. Anche in Sicilia
le città moderne convivono con quelle antiche, come è possibile coniugare la
difesa del patrimonio e la crescita urbana? <Si deve convivere con il
passato, in Sicilia come nel resto d’Italia. Ed è una doppia fortuna saperlo
fare perché significa possedere gli strumenti per conoscere le proprie radici e
costruire un futuro migliore: senza cultura e consapevolezza di se stessi, non
si può guardare avanti. Tuttavia, il patrimonio non è un bene da sacralizzare.
Un monumento, un museo, un’area archeologica non dev’essere oggetto solo di atteggiamenti
rituali ma deve far parte della vita quotidiana. Questa concezione sacrale e
rituale nel rapporto con il passato, sostenuto dall’atteggiamento di addetti ai
lavori che temono come il diavolo l’acqua santa che il patrimonio possa essere
valorizzato, monetizzato, è la paura di chi di fronte a un mondo che cambia,
alla globalizzazione, non sa inventare il nuovo per gestire il futuro. E si abbarbica
sul passato come se la Sicilia, e l’Italia tutto, negli ultimi cento anni abbia
saputo gestire sempre correttamente i beni culturali. Non è stato così>. Tra
gli errori della gestione culturale vi è la didattica, e dunque il ruolo delle
Università, ma anche la compresenza di troppi enti nel coordinamento dei beni
culturali. Ovvero la responsabilità congiunta di più amministrazioni nella
tutela di una chiesa o di un’opera d’arte che, per esempio, può essere di
proprietà della Curia ma gestita dallo Stato e salvaguardata dalla
Soprintendenza, in un immobile di competenza comunale.
Altro
punto dolente è poi il senso di appartenenza da parte dei cittadini nei
confronti del patrimonio. <E ciò a causa di chi quasi intende come nemici
della tutela – dice Manacorda – gli italiani, i cittadini potenziali
distruttori dei beni culturali che, per questo, è sempre più tenuto sotto
chiave quasi come se la comunità fosse colei capace di metterlo a rischio.
Certamente, esistono persone che hanno inteso e intendono speculare sul
patrimonio, ma non per questo si può tenerlo in gabbia. Il patrimonio è della
Repubblica e l’unica, grande operazione politica e culturale da fare è far
sentire i cittadini padroni di tutti i musei, i siti e le opere d’arte del
territorio, mettendo nell’angolo i marioli>.
Ma,
oggi, i cittadini conoscono il loro patrimonio? I siciliani conoscono i loro
tesori?
<I
“sacerdoti della cultura” citano spesso l’art. 9 della Costituzione
dimenticandone di sottolinearne un dettame chiaro: la diffusione della cultura.
La tutela basata su un impianto impeditivo non funziona, invece bisogna
divulgare il valore vero della tutela promuovendo nei comportamenti e nei cuori
dei cittadini l’amore per il patrimonio. Imbalsamare significa impedire l’arrivo
di nuove energie e nuove idee, mettere in moto circuiti virtuosi innovativi. Ci
sono due operazioni da fare in Italia e in Sicilia: svegliare dal come
l’amministrazione culturale, come gli Atenei, chiarendo l’idea di fruizione e
difesa; e favorire l’”iniezione” di risorse umane e finanziarie nel settore dei
beni culturali, aprendo il patrimonio alla gestione di tutte quelle forze
sociali, culturali, cittadine e imprenditoriali che voglio prendere in mano una
fetta della cultura. Piuttosto che tenere chiuse le aree archeologiche
lasciandole invadere dai rovi, attraverso una finta tutela pubblica, apriamo i
cancelli a chi vuole gestirli affinchè diventino luoghi vivi dove passeggiare,
prender un caffè, far giocare i bambini. La Sicilia inserisca dentro la vita
quotidiana di tutti questa meraviglia di patrimonio che possiede, e lo faccia
vivere. Contemplare un museo in silenzio, significa non avere un futuro perché
una sala museale di certo non è bella, non ha valore se è vuota di persone>.
Aprire
ai privati, dunque. <Certo – dice Daniele Manacorda – ma cambiando
mentalità. Accettare un sponsor che vuole investire senza gridare allo scandalo
se vuole auto-promuoversi attraverso queste iniziative. Meglio la managerialità
che accettare l’elemosina come oggi fa lo Stato quando chiede soldi per i suoi
beni senza dare nulla in cambio. Ascoltiamo le idee di chi vuole investire nel
patrimonio: è questa anche la strada intrapresa dal ministro Franceschini>.
Lei
ha proposto di ricostruire l’arena all’interno del Colosseo. Qual è il limite
dell’uso sociale dei monumenti antichi in una regione di grandi teatri di
pietra come la Sicilia? <Non c’è nulla di male che il Teatro di Siracusa o
quello di Taormina ospitino rappresentazioni teatrali: è una maniera positiva per
far vivere i monumenti che non sono quadri da appendere. La mia proposta per il
Colosseo era inserita in un contesto più ampio, sono convinto che un monumento
di quel genere debba essere restituito nella sua forma originaria, prima che
essa venisse. Il problema non è stata la proposta di ridare l’arena al Colosseo
ma le eventuali schifezze che essa avrebbe potuto ospitare: un problema
concettuale. E allora io preferisco vivere in un Paese in cui si corre rischio
di fare una schifezza in un teatro antico piuttosto che in un Paese che mi dica
cosa sia una schifezza e cosa no. Un’amministrazione pubblica non può stilare
un decalogo di quale sia la musica da poter suonare in un teatro antico e quale
sia da evitare, è un perbenismo del buono e del cattivo gusto che non trovo
adeguato e che, certo, non è compito di chi gestisce il patrimonio. Semmai lo è
evitare danni: questa è l’unica regola nell’uso dei monumenti antichi. A
Taormina come nel resto d’Italia>.
Isabella
di bartolo
(articolo pubblicato su La Sicilia, riproduzione riservata)
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