domenica 1 novembre 2015

Manacorda, i beni culturali, la Sicilia e i "sacerdoti della cultura"





Quando Daniele Manacorda propose di ricostruire l’arena del Colosseo, facendo storcere il naso a molti colleghi archeologi, il ministro Franceschini ne rimase entusiasta. Ed proprio lo svecchiamento della concezione del patrimonio archeologico che il docente dell’Ateneo Roma3 suggerisce per il rilancio della politica dei beni culturali anche in Sicilia.
Manacorda chiama in causa i “sacerdoti della cultura” colpevoli di mummificare siti e musei e, così, di contribuire alla mancata conoscenza e valorizzazione del patrimonio dell’Isola che da solo rappresenta un quarto di quello dell’intera Penisola.
<La Sicilia – dice Daniele Manacorda – ha una storia culturale talmente rilevante che non vi è civiltà che non ne abbia lasciato le sue tracce più importanti. Dalla preistoria in poi, non esiste fase storica che non abbia lasciato tracce facendo sì che l’Isola sia un paradigma di potenzialità del Mediterraneo: potrebbe essere l’esempio più emblematico di ricchezza monumentale e paesistica>. Eppure, la Sicilia resta ai margini della politica culturale del Paese anche a causa dell’autonomia gestionale che, secondo alcuni intellettuali come Salvatore Settis, ha allontanato la Regione dalla Stato con conseguenze nere in termini di gestione del patrimonio. <Ho sempre considerato un valore in Sicilia – dice l’archeologo – il fatto di aver unificato le soprintendenze convinto che il patrimonio vada valorizzato e gestito nella sua unitarietà, senza divisioni didattiche. La Sicilia, a differenza del resto dell’Italia, ha superato l’arretramento didattico che divide l’archeologia dalla storia dell’arte, eccetera. In Sicilia si è scelto uno strumento innovativo con la Soprintendenza territoriale che si occupa dell’intero patrimonio archeologico, artistico e naturalistico, tuttavia quel che non ha funzionato è stata la sua gestione ma ciò a causa degli annosi problemi dell’amministrazione siciliana, troppo politicizzata>. 

Professore, lei si occupa di archeologia in una città simbolo qual è Roma. Anche in Sicilia le città moderne convivono con quelle antiche, come è possibile coniugare la difesa del patrimonio e la crescita urbana? <Si deve convivere con il passato, in Sicilia come nel resto d’Italia. Ed è una doppia fortuna saperlo fare perché significa possedere gli strumenti per conoscere le proprie radici e costruire un futuro migliore: senza cultura e consapevolezza di se stessi, non si può guardare avanti. Tuttavia, il patrimonio non è un bene da sacralizzare. Un monumento, un museo, un’area archeologica non dev’essere oggetto solo di atteggiamenti rituali ma deve far parte della vita quotidiana. Questa concezione sacrale e rituale nel rapporto con il passato, sostenuto dall’atteggiamento di addetti ai lavori che temono come il diavolo l’acqua santa che il patrimonio possa essere valorizzato, monetizzato, è la paura di chi di fronte a un mondo che cambia, alla globalizzazione, non sa inventare il nuovo per gestire il futuro. E si abbarbica sul passato come se la Sicilia, e l’Italia tutto, negli ultimi cento anni abbia saputo gestire sempre correttamente i beni culturali. Non è stato così>. Tra gli errori della gestione culturale vi è la didattica, e dunque il ruolo delle Università, ma anche la compresenza di troppi enti nel coordinamento dei beni culturali. Ovvero la responsabilità congiunta di più amministrazioni nella tutela di una chiesa o di un’opera d’arte che, per esempio, può essere di proprietà della Curia ma gestita dallo Stato e salvaguardata dalla Soprintendenza, in un immobile di competenza comunale.
Altro punto dolente è poi il senso di appartenenza da parte dei cittadini nei confronti del patrimonio. <E ciò a causa di chi quasi intende come nemici della tutela – dice Manacorda – gli italiani, i cittadini potenziali distruttori dei beni culturali che, per questo, è sempre più tenuto sotto chiave quasi come se la comunità fosse colei capace di metterlo a rischio. Certamente, esistono persone che hanno inteso e intendono speculare sul patrimonio, ma non per questo si può tenerlo in gabbia. Il patrimonio è della Repubblica e l’unica, grande operazione politica e culturale da fare è far sentire i cittadini padroni di tutti i musei, i siti e le opere d’arte del territorio, mettendo nell’angolo i marioli>.
Ma, oggi, i cittadini conoscono il loro patrimonio? I siciliani conoscono i loro tesori?
<I “sacerdoti della cultura” citano spesso l’art. 9 della Costituzione dimenticandone di sottolinearne un dettame chiaro: la diffusione della cultura. La tutela basata su un impianto impeditivo non funziona, invece bisogna divulgare il valore vero della tutela promuovendo nei comportamenti e nei cuori dei cittadini l’amore per il patrimonio. Imbalsamare significa impedire l’arrivo di nuove energie e nuove idee, mettere in moto circuiti virtuosi innovativi. Ci sono due operazioni da fare in Italia e in Sicilia: svegliare dal come l’amministrazione culturale, come gli Atenei, chiarendo l’idea di fruizione e difesa; e favorire l’”iniezione” di risorse umane e finanziarie nel settore dei beni culturali, aprendo il patrimonio alla gestione di tutte quelle forze sociali, culturali, cittadine e imprenditoriali che voglio prendere in mano una fetta della cultura. Piuttosto che tenere chiuse le aree archeologiche lasciandole invadere dai rovi, attraverso una finta tutela pubblica, apriamo i cancelli a chi vuole gestirli affinchè diventino luoghi vivi dove passeggiare, prender un caffè, far giocare i bambini. La Sicilia inserisca dentro la vita quotidiana di tutti questa meraviglia di patrimonio che possiede, e lo faccia vivere. Contemplare un museo in silenzio, significa non avere un futuro perché una sala museale di certo non è bella, non ha valore se è vuota di persone>.
Aprire ai privati, dunque. <Certo – dice Daniele Manacorda – ma cambiando mentalità. Accettare un sponsor che vuole investire senza gridare allo scandalo se vuole auto-promuoversi attraverso queste iniziative. Meglio la managerialità che accettare l’elemosina come oggi fa lo Stato quando chiede soldi per i suoi beni senza dare nulla in cambio. Ascoltiamo le idee di chi vuole investire nel patrimonio: è questa anche la strada intrapresa dal ministro Franceschini>.
Lei ha proposto di ricostruire l’arena all’interno del Colosseo. Qual è il limite dell’uso sociale dei monumenti antichi in una regione di grandi teatri di pietra come la Sicilia? <Non c’è nulla di male che il Teatro di Siracusa o quello di Taormina ospitino rappresentazioni teatrali: è una maniera positiva per far vivere i monumenti che non sono quadri da appendere. La mia proposta per il Colosseo era inserita in un contesto più ampio, sono convinto che un monumento di quel genere debba essere restituito nella sua forma originaria, prima che essa venisse. Il problema non è stata la proposta di ridare l’arena al Colosseo ma le eventuali schifezze che essa avrebbe potuto ospitare: un problema concettuale. E allora io preferisco vivere in un Paese in cui si corre rischio di fare una schifezza in un teatro antico piuttosto che in un Paese che mi dica cosa sia una schifezza e cosa no. Un’amministrazione pubblica non può stilare un decalogo di quale sia la musica da poter suonare in un teatro antico e quale sia da evitare, è un perbenismo del buono e del cattivo gusto che non trovo adeguato e che, certo, non è compito di chi gestisce il patrimonio. Semmai lo è evitare danni: questa è l’unica regola nell’uso dei monumenti antichi. A Taormina come nel resto d’Italia>.
Isabella di bartolo
(articolo pubblicato su La Sicilia, riproduzione riservata)

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