La rinascita di Noto,
fatta di
intarsi lapidei screziati di dorato e di tratteggi
urbanistici eleganti, è legata al coraggio
della sua antica classe aristocratica. Furono
i nobili più innovatori, infatti,
che dopo il terremoto del 1693 vollero
la ricostruzione della città non più
sulle ceneri di quella antica, come già
avvenuto dopo il sisma del 1542, bensì
su un altro luogo. Ex novo. Non
più, dunque, quella Netum che troneggiava
sulla rupe di Alveria dall’età preistorica,
ma una città nuova. Proiettata
sul futuro. Che lasciava la montagna
per sfruttare una risorsa nuova:
il mare.
«Noto
antica - dice lo storico d’arte Paolo
Giansiracusa - sorgeva sul colle Alveria,
su un abitato di orgini greche che,
a sua volta, giaceva sul perimetro di
una città ancora più antica. Così, la Noto
che nel 1693 viene colpita dal terremoto
è quella che si perpetuava nel
tempo: sempre nello stesso sito, sempre
sulla stessa rupe. Dalla preistoria al
barocco, passando per il Medioevo e
il Rinascimento». Una città che non
si era mai spostata per il consolidamento di
interessi e agevolazioni fiscali: Noto
era città demaniale, infatti, e
come tale apparteneva direttamente alla
corona con conseguenti privilegi per
i grandi feudattari che godevano di
franchigie e del possesso del territorio, uomini
e cose compresi. Ma
a differenza del 1542, Giansiracusa evidenzia
che nel 1693 dal punto di
vista economico e politico i tempi erano
maturi per una svolta. «I nobili e coloro
che avevano possedimenti e beni -
dice il docente - si resero conto che una
città su una rupe avrebbe avuto poche
speranze per svilupparsi e avere una
crescita nuova non più legata ai feudi
ma a nuove dinamiche. La Noto medievale
è quella dei pastori, dei contadini e
appunto dei feudatari. Ma ora le
città guardano al mare: non vi è più la
pirateria del ‘500 e l’oro blu è una risorsa da
sfruttare. Lo dimostreranno poi,
tra l’altro, le tonnare della zona sud
la cui maggiorparte apparteneva ai netini».
Questo
nuovo orientamento economico e
sociale non può giustificarsi con una
città arroccata sui monti, ma serve un
luogo pianeggiante, vcino al mare, con
strade più ampie. Serve un nuovo assetto
urbanistico. «I nobili innovatori -
dice Giansiracusa - a differenza dei conservatori
più legati alla pastorizia e all’agricoltura,
prima ancora che la corona spagnola
avesse deciso lo spostamento dal
monte alla pianura, scesero nelle
campagne e delinearono la nuova città
lottizzando il territorio. Già prima che
si facessero i muri di pietra, questi
aristocratici avevano costruito confini
con puntelli di legno come svelano anche
recenti scavi archeologici». E
fu così che quando il duca di Camastra Giuseppe
Lanza fu inviato dal re per
redimere la questione tra innovatori e
conservatori, si trovò dinanzi a un’opportunità.
Il duca era una sorta di responsabile
della protezione civile del governo
e chiese ai nobili se la nascita di
una nuova città comportasse una maggiorazione
di spesa per la corona. «Il
laico volle sapere se le fortificazioni, le
piazze o gli acquedotti avrebbero dovute
farle il re - aggiunge il docente -.
Ma quella che stava nascendo non era
più una città del’età del medioevo, ma
di epoca moderna. Gli aristocratici innovatori
convinsero anche i vari ordini religiosi
a spostarsi. Gesuiti, domenicani e
benedettini ebbero allettanti promesse
per la costruzione di conventi maestosi
e prestigiosi. Il re non potè
dire di no e si diede al via alla nascita della
nuova Noto a cui presero parte, dopo un certo periodo, anche i conservatori». Fu
così che nacque una città innovativa che
guardava all’Europa. Alle mirabili architetture
e alla leggiadria del più
puro barocco. Noto è molto di più del simbolo della ricostruzione post-sisma. E’
il segno di una volontà più ardita di
rinascita rispetto alle altre città come Siracusa,
per esempio, dove non si ebbe
il coraggio di radere al suolo case e monumenti come, invece, accadde a Catania.
Noto aveva una possibilità unica: ricostruire
ex novo, in aperta campagna. E
lo fece nel segno di un’altra grande
innovazione: una visione progettuale organica.
Affidata a un solo uomo:
Rosario Gagliardi.
«Tutto
quello che venne costruito a Noto
- aggiunge Giansiracusa -, anche se
progettato da altri illustri architetti tra
cui Paolo Labisi e Vincenzo Sinatra, quest’ultimo
autore del palazzo del
Senato, venne coordinato da Gagliardi che
assurse a ruolo di “architetto
di
città”. Non vi furono, dunque, singole
architetture ma ogni opera venne
inserita dentro un mosaico secondo una
visione urbanistica unica. A Noto
l’organicità diviene continuità». E
il risultato è la meraviglia di palazzi, strade,
piazze e scorci mozzafiato. Opere
che sono un patrimonio dell’umanità.
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