domenica 15 gennaio 2023

I tesori "autenticamente" falsi di Taormina

Un giallo siciliano in salsa archeologica si snoda tra Taormina e Palermo, passando per l’Inghilterra e la Germania. Tra il 1865 e il 1876, un contadino di Giardini Naxos, tale Moschella, dichiarò di aver scoperto un tesoretto di piccole statue lavorando la terra nelle campagne di Mistressa, alle spalle del paese. Figurine buffe, strane, con iscrizioni indecifrabili e pose fantasiose. “Monumenti d’arte sconosciuta” come vennero chiamati dagli appassionati dell’epoca che facevano a gara per acquistarle e che, fino ad oggi, fanno parte delle collezioni del British museum, dell’Istituto archeologico Germanico di Roma e del museo Salinas di Palermo. 



All’epoca infatti, Taormina e l’area dell’antica Naxos erano mete indiscusse del Grand tour dei viaggiatori che, dalle ricche città d’Europa, giungevano in Sicilia per scoprire i resti dell’antica civiltà. E fu proprio a questi turisti d’eccezione che il contadino vendette, con grande fortuna, i suoi buffi ritrovamenti con il sostegno di archeologi di grande fama. <Eppure erano autentici falsi – dice Flavia Frisone, docente di Antichità greche all’Università del Salento – che circolarono nel mercato archeologico per oltre un decennio, nella metà dell’Ottocento. Un affaire che ebbe grande successo grazie alla presenza attiva di Francesco Saverio Cavallari il quale, giunto dal Mexico e nominato ai vertici della Direzione delle Antichità di Sicilia, già nel 1865 aveva perorato l’acquisto da parte della Regia Commissione per le Antichità e Belle Arti di reperti archeologici provenienti dalla collina di Mastressa>. 





Non solo, due anni dopo, Cavallari pubblicò una relazione certosina sulla presunta area archeologica di Mistretta, sui pezzi rinvenuti descritti con precisione dando, così, pieno riconoscimento scientifico al ritrovamento del contadino. Il direttore delle Belle arti accennò pure allo stile rozzo dei manufatti che, però, ricondusse alla popolazione dei Siculi che in quest’area dell’Isola avevano vissuto. <Ma un ruolo decisivo, a favore dell’autenticità di quegli strani oggetti – prosegue la docente - giocava la presenza delle iscrizioni. Quello stesso elemento che, quasi 150 dopo, rivelerà la beffa messa in piedi dallo scaltro contadino con il sostegno di qualcuno ben più scaltro di lui. Quando, infatti, nacque qualche dubbio sulla vera natura dei reperti, Cavallari stesso volle eseguire uno scavo archeologico nel campo di Mastressa per fugare qualsiasi perplessità e scrivere persino nuova, molto discutibile, pubblicazione. Ma qualcosa non funzionò e quando, nel 1875, il contadino chiese alla Commissione di antichità e belle arti il permesso per vendere altri pezzi al museo Salinas, l’istituzione disse no. Moschella trovò comunque altri acquirenti: diplomatici inglesi, antiquari e pseudo-venditori d’arte. Insomma, fu messa in piedi una piccola industria del falso di cui 100 oggetti sono giunti sino ai nostri giorni ben nascosti nei magazzini dei musei che li acquistarono>. A svelare l’affare furono le iscrizioni incise sui reperti che, si scoprì poi dopo, ricopiavano i caratteri dell’iscrizione scoperta in quegli anni al Ginnasio di Taormina e altre incisioni antiche. Il contadino, da analfabeta, ricopiava a modo suo l’alfabeto antico e riproduce in caratteri italici anche motti dell’epoca. <Fu Mommset che gridò allo scandalo – dice la docente Frisone – e Giuseppe Fiorelli, allora alla guida del museo di Palermo, disse che mai questi oggetti sarebbero stati visti da alcuno. Lo studioso non voleva in alcun modo che quest’arte falsa potesse offendere il museo Salinas con le sue collezioni tra cui spiccava l’arte arcaica delle metope di Selinunte. Di questi oggetti non si seppe più nulla fino a quando, negli anni Sessanta, un archeologo inglese impegnato a studiare i pezzi del British museum, rinvenne gli strani reperti tra le collezioni nei magazzini; negli anni Novanta, poi, uno studioso tedesco pubblicò la descrizione di quelli inediti conservati all’Istituto Germanico di Roma e fu il primo a capire che facessero parte di un meccanismo ben congeniato dove le iscrizioni erano il punto forte e debole allo stesso tempo. Mancava uno studio preciso sul gran numero di pezzi custoditi al museo di Palermo perché inaccessibili e nascosti. Così, con l’Università di Lecce abbiamo curato un progetto sui falsi coinvolgendo l’Istituto d’arte di Parigi, culminato in un convegno con i pezzi siciliani tra i protagonisti>. 

Isabella di bartolo (riproduzione riservata) 

Il Ginnasio Romano di Siracusa, gioiello sconosciuto

A Siracusa, negli anni Ottanta, questo luogo a due passi dal centro, era lo scenario preferito per le fotografie degli sposi. Qualcuno lo ricorderà ancora tra le tappe del giorno delle nozze. 

Ma per molti il Ginnasio romano – o Piccolo Teatro romano come è oggi appellato – è un monumento sconosciuto. Un sito dimenticato che, insieme ad altri gioielli archeologici quali il Tempio di Apollo e quello intitolato a Zeus, si annovera nel circuito impropriamente detto dei “monumenti minori” della città aretusea.

 Un luogo sconosciuto ai turisti e fuori da qualsiasi tour organizzato, che si intravede lungo la via Elorina, la storica arteria che collegava Siracusa a Eloro. Spesso, questo scorcio della Siracusa antica è inaccessibile dalle sterpaglie che lo ricoprono nascondendo agli occhi dei turisti lo spettacolo di un emiciclo lapideo dedicato ai culti orientali e datato al I secolo dopo Cristo. 





Non ci sono risorse economiche per rendere fruibile il monumento nei giorni festivi, così come nel pomeriggio.  Inesistenti le legende relative alla storia e alla tipologia dell’edificio romano, ancora oggetto di analisi da parte degli studiosi del settore. Scarse le segnaletiche, del tutto assenti le ricostruzioni grafiche del sito nonostante esso sia stato protagonista di campagne di scavi in collaborazione con l’università di Padova, e curate dall’architetto Francesco Tomasello dell’università di Catania.  

Ancora in termini di accoglienza turistica e fruizione, il sito è difficilmente raggiungibile: i turisti che ne scoprono l’esistenza nei libri vi si recano a piedi; nessun posteggio, infatti, esiste nei pressi dell’area archeologica, così come non è meta di navette o autobus. Eppure il sito è di grande e suggestiva bellezza, oltre che di rilevante interesse storico e archeologico. Tra le proposte che si sono susseguite quella di affidarne la gestione a società private, capaci di garantirne la fruizione. E poi, magari, la possibilità di aprirlo al pubblico e farlo divenire un luogo tra arte e natura dove ospitare eventi. 

 

domenica 20 novembre 2022

La piazza Navona catanese: ecco la Naumachia secondo Dario Palermo

 


Una piazza Navona catanese. E’ la nuova ipotesi degli studiosi davanti ai resti di quello che appare come uno stadio di epoca latina, proprio come quello costruito dall’imperatore Domiziano a Roma e divenuto oggi tra le piazze più note al mondo. Da secoli, si tenta di ricostruire il rapporto tra la Catania moderna e il suo più antico passato e proprio sulle orme di alcune ricerche, il professor Dario Palermo, archeologo tra i più noti esperti internazionali di cultura dell’Egeo e docente dell’Università etnea, ha scoperto un monumento destinato agli spettacoli che si nasconde tra le strade e la case di un rione popolare di Catania. “Nel XVI secolo – spiega Palermo - il medico ed erudito catanese Lorenzo Bolano, descrivendo i monumenti della città in un’opera andata perduta, ricordava la presenza di due grandiosi edifici destinati agli spettacoli: un ippodromo e una naumachia, vicini e visibili ai suoi tempi davanti alla porta delle Decime, lungo la cosiddetta via Occidentale”. Un luogo destinato alle corse dei cavalli, dunque, e un altro dedicato alle ricostruzioni di battaglie navali in bacini artificiali. Ma che fine hanno fatto questi edifici di età romana? Secondo la ricostruzione degli archeologici, i resti della porta delle Decime, nella cinta medievale di Catania a poca distanza da Castello Ursino e che era detta così perché vi si riscuotevano i dazi, sono ancora ben visibili accanto alla chiesa di San Giuseppe al Transito, in piazza Maravigna, proprio all’inizio della attuale via Naumachia il cui tracciato ripercorre quello iniziale della via Occidentale, importante asse di collegamento verso la piana etnea. L’intera area, con le sue rovine antiche, venne sommersa dall’eruzione lavica del 1669 ma, come ha scoperto Edoardo Tortorici, docente di Urbanistica romana all’Ateneo di Catania, l’ippodromo doveva trovarsi a 300 metri a ovest dal Castello Ursino. Nessuna traccia, invece, del secondo edificio da spettacolo: la Naumachia appunto; fino alle intuizioni di Palermo e del suo allievo Iorga Prato davanti alle immagini satellitari di Google maps che fotografano l’area. “Si notano tracce di un grande edificio rettangolare, orientato in senso est-ovest con il lato breve occidentale conformato a semicerchio nella classica forma dell’edificio da spettacolo antico – spiega Palermo -. Il fatto che l’andamento dell’arena del monumento sia perfettamente parallelo all’attuale via Naumachia, lascia pensare che la denominazione della via non sia affatto casuale”. Una scoperta delicata vista la mancanza di resti archeologici e l’assenza di tracce nella cartografia antica della città ma sostenuta da nuove osservazioni poiché ci si accorge che in mezzo alle casupole settecentesche, di nessun valore architettonico, che costituiscono la fronte meridionale della via Naumachia, vi sono strutture architettoniche che stridono con il contesto modesto di case popolari attorno ai cortili. “Piccole abitazioni di singolare bellezza di fattura e pregio – prosegue Palermo -realizzate in pietra lavica, che non sono mai state riconosciute come antiche perché hanno la forma tipica delle “cantunere”, ovvero cantoniere elementi che segnano i quattro angoli dell’edificio, di cui la Catania settecentesca è ricchissima. A ciò si aggiunge un altro elemento di grande interesse che testimonia il riutilizzo dell’area in età medievale: nella facciata occidentale del passaggio che da via Naumachia conduce al cortile Fuochisti, si nota un bell’arco settecentesco in pietra lavica con mascherone, che poggia sul piano moderno, comparso di recente a seguito del crollo di un tramezzo, con un bel portale ad arco perfettamente conservato in pietra lavica,che doveva poggiare ad una quota sensibilmente inferiore a quella del piano moderno, di almeno un metro, indicandone così una messa in opera prima dell’eruzione del 1669”. Tutto questo svela la presenza di un grande edificio da spettacolo posto parallelamente all’attuale via Naumachia circondato a nord da un muro con portici ad arcate sovrapposte, che coincide con l’attuale lato meridionale della strada moderna; e con un’arena che doveva iniziare a una decina di metri di distanza. Secondo la ricostruzione, la scomparsa di questo edificio dovette iniziare nel Medioevo quando vennero costruite le mura della città e si decise di distruggerlo per impedire che venisse usato come comoda via la scalata alle mura.

Gli archeologi non si sbilanciano sull’identificazione di questo grandioso monumento destinato agli spettacoli come una Naumachia per battaglie navali su esempio di Roma e della sua piazza Navona a cui i catanesi volevano ispirarsi per il desiderio di esaltare le loro virtù belliche e marinaresche. Come spiega un’altra archeologa, Francesca Trapani, potrebbe trattarsi di un piccolo stadio di circa 200 metri di lunghezza e 135 di larghezza. “Dimensioni che si addicono bene a una città di provincia quale era Catania – dice Dario Palermo –. L’edificio potrebbe essere del II secolo dopo Cristo durante un periodo di rinascimento cittadino che vide protagonista la città etnea.

Un santuario della dea Madre scavato nella roccia dell'antica Akrai: nel sudest della Sicilia il più antico del mondo greco

 

E' il più grande santuario scolpito nella roccia di tutto il mondo greco e si trova nel sito dell’antica città di Akrai, nei pressi di Palazzolo Acreide. Dodici immagini ricavate nella roccia della città che Siracusa fondò nel 663 avanti Cristo e di cui resta anche un suggestivo teatro. Dodici simboli di una religiosità millenaria legata al culto della terra, delle messi e della fecondità in un luogo intitolato ai Santoni che prende il nome dalle effigi ricavate nella roccia che rendono il sito di Palazzolo uno dei più vasti tra i complessi religiosi dedicati alla dea Cibele. E’ questa la stessa divinità che i Romani chiamavano “Magna mater”, la signora della natura e di tutti gli esseri viventi.

Il sito archeologico è un’area ricca di fascino e di mistero tanto da ammaliare il principe di Biscari e Jean Houel e, fino ai giorni nostri, l’area è oggetto di studi da parte di archeologi ed esperti di culti antichi. Dopo numerose polemiche e una lunga attesa, la Regione ha stanziato 1 milione e mezzo di euro che servirà per la valorizzazione e la fruizione di questo sito archeologico che, dopo il restauro, sarà aperto al pubblico anche al tramonto con visite serali che ne esalteranno la suggestione. A questa somma si aggiunge anche lo stanziamento di 845.000 euro per la valorizzazione e la fruizione del Teatro antico di Akrai.

 
 
 


 

Per la sua vastità e bellezza, il sito dei Santoni rappresenta un unicum al mondo secondo gli studiosi tra cui si annovera Luigi Bernabò Brea, l’archeologo che individuò nell’area di Palazzolo uno dei complessi cultuali che contribuirono a diffondere il culto della dea Cibele nel mondo greco-romano.

Numerose le leggende popolari legate al sito archeologico come ricordava, nel 1777, il pittore-viaggiatore Jean Houel che si rammaricava del fatto che alcune statue fossero state cancellate “più della mano degli uomini che da quella del tempo. I pastori dei dintorni prendono talvolta le pietre e, per passatempo, senza cattive intenzioni, colpiscono le teste delle figure senza rendersi conto di quello che fanno”. Simili episodi narrano anche gli abitanti di Palazzolo che ricordano l’odio di un contadino proprietario del terreno nei confronti di queste statue: l’uomo, infatti, stanco di dover sopportare frequenti visite da parte di curiosi e appassionati di storia e archeologia, decise di sfigurare il volto delle statue a colpi di ascia danneggiandoli per sempre. Tuttavia non riuscì nel suo intento e oggi l’area dei Santoni resta uno dei luoghi più interessanti dal punto di vista storico e archeologico.

 

(articolo di Isabella di bartolo)

Il primo chef dell'antichità? Era un siracusano

 

Lo chiamavano il “Fidia dei cuochi” e lui, Mithekos di Siracusa, ne era orgoglioso. Le fonti antiche lo descrivono come il primo autore di un trattato di cucina della storia e la tradizione gastronomica degli abitanti della Magna Grecia è legata proprio a questo cuoco siracusano del V secolo avanti Cristo. Oggi, storici e pasticceri, vanno a caccia delle sue ricette per ricostruire la storia del gusto antico e dell’antica Sicilia di età greca. Il primo risultato è nel segno della dolcezza: una torta ispirata alle sue ricette nata dall’unione di ricerche d’archivio e sperimentazione ai fornelli. 


 

“Le testimonianze storiche sulla cucina più antica sono scarne – dice Sergio Cilea, storico e responsabile del Fondo ambiente italiano aretuseo – ma molto preziose. Le fonti ci tramandano il nome di Mithekos, cuoco di Siracusa, citato dallo scrittore Naucrati di Alessandria, vissuto in età imperiale a Roma”. Di quest’ultimo sappiamo che nel II secolo dopo Cristo si trasferì dall’Egitto a Roma per lavorare come bibliotecario di un ricco patrizio e che scrisse un’opera monumentale prendendo come pretesto un banchetto fra intellettuali. Naucrati cita il cuoco aretuseo indicandolo come autore di un Manuale di ricette e proprio su di lui si sono concentrate alcune ricerche in occasione delle Giornate d’autunno del Fai che, nel Siracusano, hanno riaperto al pubblico il santuario rupestre della dea Cibele nel sito dell’antica Akrai, la città fondata dalla Siracusa greca. Proprio per celebrare questo evento, abbiamo proposto a una storica pasticceria di Palazzolo di creare un dolce dedicato alla dea greca dopo aver ricercato quali potessero essere gli ingredienti presenti in Sicilia all’epoca del culto di Cibele consultando anche le fonti relative a Mithekos. Da questo studio è nata la torta Cibele a cui hanno lavorato i pasticceri della famiglia Monaco, titolari di una storica istituzione dolciaria di Palazzolo, e che è diventata una delizia ricercatissima: grani antichi, ricotta addolcita con miele e screziata di basilico, noci per omaggiare il grande albero che fa ombra al santuario di Akrai per un dolce che riecheggia il passato greco e lo fa rivivere. Un dolce che potrebbe essere certo annoverato nel manuale di Mithekos”.

Al cuoco siracusano era legata anche una scuola di cucina considerata tra le più celebri dell’antichità e dove si formavano alcuni tra i più grandi chef dell’epoca, corteggiati dalle più ricche famiglie della Roma imperiale per le quali preparavano banchetti stravaganti, piatti elaborati e sorprendenti che hanno lasciato il segno nella cucina siciliana moderna. Fu suo il merito di diffondere la cucina siracusana, e siciliana, nel resto della Grecia sfruttando le delizie che solo la sua terra produceva. “Basta cercare nelle nostre biblioteche – dice Sergio Cilea – per trovare memorie sconosciute come nel caso della cucina antica. Antichi ricettari, erbari siciliani, libri di letteratura o semplici citazioni come nel caso di Mithekos da Siracusa, possono darci preziose informazioni non solo sul modo di cucinare i cibi ma soprattutto sugli ingredienti utilizzati nella preparazione e che erano presenti in passato nel nostro territorio. Il ritorno alla coltivazione dei grani autoctoni, le farine di grano russello o tumminia esclusive delle nostre antiche ricette, sono tornate ad arricchire i cibi siciliani. Alcuni prodotti di un tempo sono oggi scomparsi come il Mespilus germanica, in Sicilia chiamato Nespola d’inverno donata ai bambini durante il periodo natalizio. Da oltre 2000 anni, invece, sulle tavole si trova l’origano di Siracusa, che cresce spontaneo esclusivamente sulle balze del quartiere della Neapolis: una specie introdotta in tempi antichissimi dai greci, diffusa oltre che a Siracusa solo in Grecia e Turchia”.

Il cibo, si sa, è legato alla terra, alle tradizioni, al popolo. Come mangiavano gli antichi significa anche capire in che modo vivevano perché il banchetto, in ogni epoca e società, è un momento di condivisione, di incontro e assume caratteristiche che vanno oltre al pasto e diventano più ampie, culturali, ludiche e politiche. In tal senso, assume un significato profondo il rimprovero che Platone faceva ai siracusani. Agli abitanti dell’antica Siracusa, infatti, piaceva la buona tavola, il sollazzarsi nei lunghi banchetti e il pasteggiare lussuoso. E il filosofo greco non condivideva la loro abitudine di concedersi troppi vizi a tavola, di cucinare in maniera troppo sofisticata e di usare troppi intingoli: usanze che stridevano con l’educazione di Atene, i principi di moderazione e rigore. Platone però suggeriva di degustare il vino con i dessert e, tra questi, soprattutto i fichi più dolci.

Ma cosa mangiavano gli antichi siciliani? Lo racconta un altro cuoco siciliano, Archestrato di Gela, che visse nel IV secolo avanti Cristo e scrisse un poema culinario dal titolo “Hedypatheia” ovvero “Vita di dolcezze”, in cui sono descritte ricette, modi in cui mescere il vino e prelibatezze condite con olio, aceto, vino, erbette, semi di cumino e sesamo. Archestrato preferiva il pane con farina d’orzo considerato superiore a quelli preparati con altre farine e suggeriva di accompagnarlo con il formaggio che si produceva da sempre specie nelle zone dei monti Iblei.

Ancora un altro siracusano, Labdaco, nel III secolo avanti Cristo si distinse per essere uno dei più famosi cuochi dell’epoca ma anche per aver fondato una scuola culinaria a cui erano iscritti anche allievi provenienti da altre città della Grecia a dimostrazione di quanto fosse nota la cucina dell’Isola greca. 

 

Articolo di Isabella Di Bartolo (pubblicato sul quotidiano La Repubblica, diritti riservati)