venerdì 30 ottobre 2015

Settis, amore e rabbia per il patrimonio culturale della Sicilia



Quando parla della Sicilia, Salvatore Settis è combattuto tra rabbia e amore. La rabbia per una regione che non vuole chiedere aiuto e calpesta se stessa, l’amore per un’Isola che è tra i luoghi più ricchi di bellezza nel mondo.
Così, davanti alle denunce, alle immagini, alle segnalazioni di un patrimonio identitario che, giorno dopo giorno, continua a morire, Settis si sorprende poco. E addita la colpa di quest’incuria culturale a chi gestisce la cosa pubblica e non lo fa. Affatto.
<E’ stata una pessima idea, a mio avviso, affidare alla Regione siciliana, unica in Italia, la tutela totale dei beni culturali – afferma il docente – Il ministero per i Beni culturali conta in tutte le regioni, anche in quelle a statuto speciale come la Sardegna, eppure in Sicilia non conta nulla. L’Isola fa storia a sé, non si compara, resta chiusa in se stessa. Ed è un isolamento a cui ha condotto l’atteggiamento di tanti politici siciliani che, da assessori o presidenti della Regione o, ancora, legati alla gestione dei beni culturali, si occupano della tutela del patrimonio come se la Sicilia fosse uno Stato a sé. Come se lo stretto di Messina definisse un confine netto, non solo geografico, con il resto dell’Italia>.

La “bizzarria”, come la definisce il professore Settis, è che la devoluzione piena alla Regione dei suoi beni culturali sia avvenuta nello stesso anno in cui fu istituito il ministero per i Beni culturali e ambientali. Il Governo italiano, infatti, ritenne necessario dar vita a un dicastero preposto alla cultura, all’arte, al patrimonio storico e ambientale e, appena sei mesi dopo, tolse a se stesso la competenza di tutelare i beni culturali di una delle regioni con la più alta densità di patrimonio. Una bizzarria, appunto.
<Questo rivela la povertà politica italiana già nel 1975 – dice l’archeologo e docente della Normale di Pisa –. Commettere un errore, come è accaduto, non significa tuttavia continuare a ripeterlo come invece succede ancora oggi. In Sicilia, la mancanza di comparazione con altre regioni dà alle amministrazioni regionali una sorta di delirio di onnipotenza. La Regione siciliana ha così l’illusione di poter fare tutto e tale impressione conduce certo a conseguenze negative per il territorio. E’ questa condizione che conduce, ad esempio, a decisioni come quelle di allontanare i soprintendenti più competenti, come accaduto di recente. E tutto ciò lascia intendere che la competenza conti sempre meno in Sicilia>.
Gestione e politica, poi, significa soldi. E quando si parla di beni culturali in Sicilia e denaro lo scenario è quello di sprechi e occasioni perdute. Ma Settis dice di più. <In situazione dominata da questo delirio di onnipotenza da parte della Regione – afferma il docente – e dall’illusione di essere al riparo dalle critiche, l’investimento delle risorse economiche a disposizione del territorio, spesso viene indirizzato sulla base della simpatia politica o sulla scorta di di decisioni extra-tecniche. Credo che il caso del Teatro greco di Siracusa che si sbriciola sia un caso di scuola: i nostri monumenti si sbriciolano per mancanza di manutenzione. Invece è proprio l’attenzione costante, l’intervento programmato che Giovanni Urbani ha sempre raccomandato, la priorità per tutelare il nostro patrimonio. Se tutto ciò manca, tutto crolla. I beni culturali, in fondo, sono come il nostro corpo: bisogna curarlo costantemente. Lo sbriciolarsi del Teatro greco di Siracusa è, appunto, il sintomo di una malattia: sono sicuro che metteranno a posto le pietre fratturate, ma bisogna curare le ragioni della malattia>.
Professore, perché è così difficile in Sicilia coniugare la salvaguardia del patrimonio con lo sviluppo del territorio? Quali sono i motivi di questo mancato connubio?
<La difficoltà nasce da una carenza di cultura istituzionale. E in tal senso, intendo due cose. Un assessore regionale dovrebbe sapere che nelle Soprintendenze e nei musei debbano lavorare figure di altissima competenza e questo, invece, accade in alcune istituzioni e in altre no. Di certo, la maggioranza degli assessori regionali non hanno mostrato attenzione alla vera competenza; piuttosto molti sono stati più attenti al fatto che soprintendenti e direttori di musei fossero ubbidienti più che preparati. Ebbene, l’ubbidienza alla politica non è una virtù, lo è invece la competenza. Una vera cultura istituzionale è quella capace di dare alla competenza il suo valore. L’altra mia riflessione a proposito del difficile connubio tra tutela e sviluppo è la concezione stessa del patrimonio: anche in Sicilia vale la Costituzione della Repubblica e il suo articolo 9, almeno così dovrebbe essere. L’art. 9 della Costituzione è chiaro: dice che il paesaggio e il patrimonio appartengono ai cittadini a titolo di sovranità, e se i monumenti e il paesaggio sono di tutti i cittadini e fanno parte dell’identità nazionale e del possesso a titolo di sovranità, allora questo deve essere il punto dominante. Non la rincorsa ai turisti che, certo, hanno diritto ad ammirare e godere la bellezza dei luoghi. Ma il patrimonio è di chi vive in questi luoghi. Non si può trasformare una città d’arte e cultura in una Disneyland per turisti ma la prima cosa, quella fondamentale, è custodire il patrimonio per i cittadini che ne sono i proprietari legittimi. E questo senso istituzionale che manca e non solo in Sicilia. L’art. 9 della Costituzione dice che il livello di tutela e i criteri di valorizzazione del patrimonio debbono essere identici in tutto il territorio italiano: non è così. E il caso massimo è proprio la Sicilia che non viene più comparata al resto d’Italia>.
Salvatore Settis ricorda, a tale proposito, che quando era presidente del Consiglio superiore dei beni culturali chiese notizie del patrimonio siciliano senza, tuttavia, ottenere notizie. Gli uffici del ministero, infatti, non sapevano alcunché della Sicilia e dei suoi beni. La situazione non è cambiata oggi perché il ministero per i Beni culturali non conosce nemmeno le statistiche, i numeri di musei e luoghi d’arte e cultura siciliani. <E allora – dice Settis – se la situazione è questa, come si può sperare di essere riconosciuti per quello che si è: uno dei più grandi fiori all’occhiello del patrimonio italiano? Forse nessuna regione della nostra Penisola può competere con la Sicilia per bellezza>.
La gestione di monumenti e musei è spesso legata anche al ritorno economico di questi beni. Un piccolo gioiello-museo come quello di Lentini, per esempio, è fanalino di coda in Italia e mantenere luoghi che non offrono prospettive di introito è spesso al centro del problema gestionale siciliano. Lei cosa ne pensa?
<Affido il mio commento alle parole sentenze dell’art. 9 che asserisce come il valore culturale dei beni sia al di sopra di qualsiasi significato economico. Non possiamo accettare che se un museo non ha incassi sufficienti a coprire i costi del suo mantenimento, debba chiudere. Se questo è il criterio, allora chiudiamo tutte le scuole elementari e medie d’Italia perché certamente non portano guadagni. Musei, teatri, luoghi d’arte sono aspetti della cultura vitali per la salute mentale dei cittadini tutti, per la creatività di un popolo e per le nuove generazioni a cui si potranno assicurare le condizioni della creatività che poi, a loro volta, dedicheranno al futuro in ogni settore e professione. Se parliamo di ragioni meschine, quando si parla di cultura, allora stiamo commettendo suicidio. Anzi, stiamo per premere il grilletto>.
Professore, cosa pensa dei prestiti delle opere d’arte e delle grandi mostre che la Sicilia non allestisce?
<Il business delle mostre, certo, va rivisto seppur non radicalmente. Non sono affatto convinto che si facciano troppe mostre in Italia ma il punto dev’essere: cosa si fa. Una mostra, rispetto alle collezioni permanenti, è un’occasione per pensare e ha senso quando riesce ad accostare oggetti che di solito si trovano in musei diversi. Ad esempio, la mostra dei quadri di Raffaello al Prado o al Louvre che consente di vedere, tutti insieme opere di uno stesso autore, di uno stesso periodo. E questa è un’occasione unica. Oggi invece prevale l’idea di mostre del tutto pretestuose in cui o si chiede in prestito un pezzo, come i frontoni del Partenone all’Hermitage o il quadro “La ragazza con l’orecchino di Perla” a Bologna che diventa un’icona. Noi invece non abbiamo bisogno di icone da adorare ma di arte che ci faccia pensare. E questo è invece quello che sta accadendo. Le opere prestate dalla Sicilia, come il Satiro di Mazara, se comparato con altre statute ha senso. Se invece si prende un oggetto, unico ed iconico, no. E a dimostrazione di ciò vi è il fatto che far circolare le opere siciliane nel mondo non fa, poi, arrivare turisti in Sicilia. L’assenza quasi totale, l’incapacità di produrre grande mostre in Sicilia è molto chiara a differenza di regioni simili, per bellezza e patrimonio, come la Toscana che, invece, allestisce eventi nel segno della grande arte. Spero che non sia sempre così>.
Come può la Sicilia salvare il suo patrimonio e guardare al futuro?
<Ci vuole umiltà. E vorrei ricordare che l’articolo 9 della Costituzione venne proposto da un siciliano, Concetto Marchesi, che era un grande latinista e rettore dell’Università di Padova, poi senatore della Repubblica. Fu proprio lui ad evidenziare come fosse necessario evitare che le regioni, a cominciare dalla Sicilia, tenessero per sé il patrimonio e la sua gestione facendone strazio. Con Aldo Moro, propose di evitare la regionalizzazione dei beni culturali. Se oggi Marchese fosse vivo, direbbe: quanto avevo ragione>.
Isabella di bartolo (articolo pubblicato sul quotidiano La Sicilia, riproduzione riservata)

mercoledì 28 ottobre 2015

Siracusa, tombe greche tra le aiuole dello spartitraffico




In una città come Siracusa può accadere che tombe di epoca greca facciano capolino fra le aiuole spartitraffico. Accade a nord del centro storico e precisamente lungo il moderno viale Santa Panagia dove, appunto tra il verde dello spartitraffico, fanno capolino i resti di una necropoli di età greca.
Le stesse che vennero scoperte negli anni Sessanta durante i lavori per la realizzazione di alcune case popolari a poche centinaia di metri dalle aiuole, in via Mazzanti, dove gli archeologi riportarono alla luce una "città dei morti". La necropoli di via Mazzanti è stata protagonista di una lunga e dettagliata campagna di scavi durante la quale sono state rinvenuti corredi funerari ed elementi che hanno permesso di narrare i riti di sepoltura e le usanze legate al passato. 
Sono 360 le tombe riportate alla luce dagli archeologi datate tra il VII e il V secolo a. C. Una necropoli greca, dunque, che restituisce tasselli alla ricostruzione della società dell'epoca.
E tombe greche si intravedono lungo viale Necropoli Grotticelle, ai bordi della strada, che dà appunto il nome a un suggestivo sito a ridosso del parco della Neapolis.
Ancora, <mute città dei morti> sono quelle che Paolo Orsi mise in luce, e fece recingere, durante la costruzione dell’ospedale Umberto I e in quella del Santuario della Madonna delle Lacrime, negli anni ’60. Una necropoli con centinaia di tombe venne rinvenuta anche in via Mazzanti, a ridosso dell’area su cui sta sorgendo oggi il posteggio comunale. Anche in questo luogo, gli archeologi della Soprintendenza aretusea trovarono anche corredi funerari all’interno delle tombe utili per la ricostruzione della società antica dell’età arcaica aretusea. 
(Isabella Di Bartolo, riproduzione riservata)