Per
conoscere il mecenate più illuminato della Sicilia, il barone Gonsalve De Nervo
affrontò un lungo viaggio dalla Francia al lembo estremo della Penisola sulla
scia dei viaggiatori del Grand tour. Come lui, da ogni parte d’Europa, erano in
molti a raggiungere la cittadina di Palazzolo per incontrare Gabriele Judica,
il barone-archeologo che aveva portato alla luce l’antica città greca di Akrai.
L’eco della sua collezione affascinava i più colti: migliaia i vasi, le statue,
i gioielli, bronzi e fregi che il barone esponeva tra le sale della sua nobile
casa. Era la primavera del 1833 quando De Nervo bussò al portone di Palazzo
Judica felice di poter fare la conoscenza dell’uomo più dotto e ricco della
Sicilia. Ma, come scrisse nei suoi appunti di viaggio, gli venne incontro un
servitore vestito di stracci che lo condusse attraverso una scala lurida in una
sala dove tra le cassapanche con le iniziali della famiglia Judica, razzolavano
le galline. Grande fu lo stupore di De Nervo quando gli venne incontro un uomo
vecchio, con una giacca rattoppata che cercò di vendergli alcuni dei reperti
meravigliosi della Sicilia antica.
Fu
questa la fine di una vita gloriosa fatta di passione, sconfinata, per l’arte e
la bellezza. Gabriele Judica dedicò tutta la sua esistenza all’archeologia e
sperperò un’immensa ricchezza per trovare l’antica Akrai. La città fondata
dalla Siracusa greca che tutti cercavano ma nessuno riusciva a individuare.
Judica ci riuscì nel 1809 quando scoprì le prime tombe antiche al colle Orbe e
poi, nel 1820, quando rinvenne il Teatro greco di Akrai. Un uomo generoso,
mosso da un amore immenso per le antichità e dal desiderio di restituire alla
Sicilia un pezzo della sua storia più fulgida.
<Il barone Judica – dice lo
storico Sergio Cilea – si trovò spesso in lotta con lo Stato che voleva
controllare scavi e reperti. Lui voleva la libertà di indagare in quel
territorio che aveva iniziato a restituire meraviglie sconosciute. Scrisse al
re che rimase impressionato della sua volontà e passione tanto da nominarlo,
nel 1820, Regio custode delle Antichità della Sicilia orientale. Da quel
momento, il barone portò in luce resti dell’antica Sicilia e trasformò il suo
Palazzo al corso in un museo aperto ai viaggiatori che venivano da ogni parte
dell’Europa più colta per ammirarlo>. Nel 1829 la collezione Judica contava
2.847 reperti di cui 892 vasi greci di bellissime fattezze. <Pur di portare
avanti questo suo mecenatismo – racconta Sergio Cilea – il barone non badò a
spese. E divenne il più ricco della città grazie alle sue capacità di fare
affari che gli permisero di entrare in possesso di estese terre e grandi
proprietà: tutte destinate al suo unico amore: l’archeologia>. Poi iniziò la
sua rovina: gli venne tolto il titolo di Regio custode e iniziò a spendere e svendere
tutto il suo patrimonio per continuare i suoi scavi fino a quando, povero, morì
nel 1835 con un unico erede, il nipote Cesare, che non riuscì a salvare la
collezione nella sua integrità.
Oggi
la passione di Gabriele Judica rivive tra le sale di un Museo inaugurato un
mese fa a Palazzo Cappellani a Palazzolo, dove è in mostra quel che resta della
sua grandiosa raccolta. Un tesoro salvato da uno dei discendenti, Gaetano
Judica, che nei primi del Novecento riuscì a mettere insieme alcuni pezzi della
collezione fino a quando, a partire dagli anni Settanta, la Regione la sottopose
a tutela e nel 1980 la Soprintendenza di Siracusa l’acquistò in vari lotti oggi
esposti al Museo Cappellani. Un luogo ritrovato aperto al pubblico ogni giorno,
gratis, dalle 9 alle 17 in attesa che la Regione istituisca un percorso più
ampio che comprenda anche un tour archeologico alla scoperta del Teatro greco,
dei resti del Bouloterion e dell’area dei Santoni.
(di Isabella Di Bartolo, riproduzione riservata)
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