Quando
parla della Sicilia, Salvatore Settis è combattuto tra rabbia e amore. La
rabbia per una regione che non vuole chiedere aiuto e calpesta se stessa,
l’amore per un’Isola che è tra i luoghi più ricchi di bellezza nel mondo.
Così,
davanti alle denunce, alle immagini, alle segnalazioni di un patrimonio
identitario che, giorno dopo giorno, continua a morire, Settis si sorprende
poco. E addita la colpa di quest’incuria culturale a chi gestisce la cosa
pubblica e non lo fa. Affatto.
<E’
stata una pessima idea, a mio avviso, affidare alla Regione siciliana, unica in
Italia, la tutela totale dei beni culturali – afferma il docente – Il ministero
per i Beni culturali conta in tutte le regioni, anche in quelle a statuto
speciale come la Sardegna, eppure in Sicilia non conta nulla. L’Isola fa storia
a sé, non si compara, resta chiusa in se stessa. Ed è un isolamento a cui ha
condotto l’atteggiamento di tanti politici siciliani che, da assessori o
presidenti della Regione o, ancora, legati alla gestione dei beni culturali, si
occupano della tutela del patrimonio come se la Sicilia fosse uno Stato a sé.
Come se lo stretto di Messina definisse un confine netto, non solo geografico,
con il resto dell’Italia>.
La
“bizzarria”, come la definisce il professore Settis, è che la devoluzione piena
alla Regione dei suoi beni culturali sia avvenuta nello stesso anno in cui fu
istituito il ministero per i Beni culturali e ambientali. Il Governo italiano,
infatti, ritenne necessario dar vita a un dicastero preposto alla cultura,
all’arte, al patrimonio storico e ambientale e, appena sei mesi dopo, tolse a
se stesso la competenza di tutelare i beni culturali di una delle regioni con
la più alta densità di patrimonio. Una bizzarria, appunto.
<Questo
rivela la povertà politica italiana già nel 1975 – dice l’archeologo e docente
della Normale di Pisa –. Commettere un errore, come è accaduto, non significa
tuttavia continuare a ripeterlo come invece succede ancora oggi. In Sicilia, la
mancanza di comparazione con altre regioni dà alle amministrazioni regionali
una sorta di delirio di onnipotenza. La Regione siciliana ha così l’illusione
di poter fare tutto e tale impressione conduce certo a conseguenze negative per
il territorio. E’ questa condizione che conduce, ad esempio, a decisioni come
quelle di allontanare i soprintendenti più competenti, come accaduto di
recente. E tutto ciò lascia intendere che la competenza conti sempre meno in Sicilia>.
Gestione
e politica, poi, significa soldi. E quando si parla di beni culturali in
Sicilia e denaro lo scenario è quello di sprechi e occasioni perdute. Ma Settis
dice di più. <In situazione dominata da questo delirio di onnipotenza da
parte della Regione – afferma il docente – e dall’illusione di essere al riparo
dalle critiche, l’investimento delle risorse economiche a disposizione del
territorio, spesso viene indirizzato sulla base della simpatia politica o sulla
scorta di di decisioni extra-tecniche. Credo che il caso del Teatro greco di
Siracusa che si sbriciola sia un caso di scuola: i nostri monumenti si
sbriciolano per mancanza di manutenzione. Invece è proprio l’attenzione
costante, l’intervento programmato che Giovanni Urbani ha sempre raccomandato,
la priorità per tutelare il nostro patrimonio. Se tutto ciò manca, tutto
crolla. I beni culturali, in fondo, sono come il nostro corpo: bisogna curarlo
costantemente. Lo sbriciolarsi del Teatro greco di Siracusa è, appunto, il
sintomo di una malattia: sono sicuro che metteranno a posto le pietre
fratturate, ma bisogna curare le ragioni della malattia>.
Professore,
perché è così difficile in Sicilia coniugare la salvaguardia del patrimonio con
lo sviluppo del territorio? Quali sono i motivi di questo mancato connubio?
<La
difficoltà nasce da una carenza di cultura istituzionale. E in tal senso,
intendo due cose. Un assessore regionale dovrebbe sapere che nelle
Soprintendenze e nei musei debbano lavorare figure di altissima competenza e
questo, invece, accade in alcune istituzioni e in altre no. Di certo, la maggioranza
degli assessori regionali non hanno mostrato attenzione alla vera competenza;
piuttosto molti sono stati più attenti al fatto che soprintendenti e direttori
di musei fossero ubbidienti più che preparati. Ebbene, l’ubbidienza alla
politica non è una virtù, lo è invece la competenza. Una vera cultura
istituzionale è quella capace di dare alla competenza il suo valore. L’altra
mia riflessione a proposito del difficile connubio tra tutela e sviluppo è la
concezione stessa del patrimonio: anche in Sicilia vale la Costituzione della
Repubblica e il suo articolo 9, almeno così dovrebbe essere. L’art. 9 della
Costituzione è chiaro: dice che il paesaggio e il patrimonio appartengono ai cittadini
a titolo di sovranità, e se i monumenti e il paesaggio sono di tutti i cittadini
e fanno parte dell’identità nazionale e del possesso a titolo di sovranità, allora
questo deve essere il punto dominante. Non la rincorsa ai turisti che, certo,
hanno diritto ad ammirare e godere la bellezza dei luoghi. Ma il patrimonio è di
chi vive in questi luoghi. Non si può trasformare una città d’arte e cultura in
una Disneyland per turisti ma la prima cosa, quella fondamentale, è custodire
il patrimonio per i cittadini che ne sono i proprietari legittimi. E questo
senso istituzionale che manca e non solo in Sicilia. L’art. 9 della Costituzione
dice che il livello di tutela e i criteri di valorizzazione del patrimonio
debbono essere identici in tutto il territorio italiano: non è così. E il caso
massimo è proprio la Sicilia che non viene più comparata al resto d’Italia>.
Salvatore
Settis ricorda, a tale proposito, che quando era presidente del Consiglio
superiore dei beni culturali chiese notizie del patrimonio siciliano senza,
tuttavia, ottenere notizie. Gli uffici del ministero, infatti, non sapevano
alcunché della Sicilia e dei suoi beni. La situazione non è cambiata oggi
perché il ministero per i Beni culturali non conosce nemmeno le statistiche, i
numeri di musei e luoghi d’arte e cultura siciliani. <E allora – dice Settis
– se la situazione è questa, come si può sperare di essere riconosciuti per
quello che si è: uno dei più grandi fiori all’occhiello del patrimonio
italiano? Forse nessuna regione della nostra Penisola può competere con la
Sicilia per bellezza>.
La
gestione di monumenti e musei è spesso legata anche al ritorno economico di
questi beni. Un piccolo gioiello-museo come quello di Lentini, per esempio, è
fanalino di coda in Italia e mantenere luoghi che non offrono prospettive di
introito è spesso al centro del problema gestionale siciliano. Lei cosa ne
pensa?
<Affido
il mio commento alle parole sentenze dell’art. 9 che asserisce come il valore culturale
dei beni sia al di sopra di qualsiasi significato economico. Non possiamo
accettare che se un museo non ha incassi sufficienti a coprire i costi del suo
mantenimento, debba chiudere. Se questo è il criterio, allora chiudiamo tutte le
scuole elementari e medie d’Italia perché certamente non portano guadagni.
Musei, teatri, luoghi d’arte sono aspetti della cultura vitali per la salute
mentale dei cittadini tutti, per la creatività di un popolo e per le nuove
generazioni a cui si potranno assicurare le condizioni della creatività che poi,
a loro volta, dedicheranno al futuro in ogni settore e professione. Se parliamo
di ragioni meschine, quando si parla di cultura, allora stiamo commettendo
suicidio. Anzi, stiamo per premere il grilletto>.
Professore,
cosa pensa dei prestiti delle opere d’arte e delle grandi mostre che la Sicilia
non allestisce?
<Il
business delle mostre, certo, va rivisto seppur non radicalmente. Non sono
affatto convinto che si facciano troppe mostre in Italia ma il punto
dev’essere: cosa si fa. Una mostra, rispetto alle collezioni permanenti, è
un’occasione per pensare e ha senso quando riesce ad accostare oggetti che di
solito si trovano in musei diversi. Ad esempio, la mostra dei quadri di Raffaello
al Prado o al Louvre che consente di vedere, tutti insieme opere di uno stesso
autore, di uno stesso periodo. E questa è un’occasione unica. Oggi invece
prevale l’idea di mostre del tutto pretestuose in cui o si chiede in prestito
un pezzo, come i frontoni del Partenone all’Hermitage o il quadro “La ragazza
con l’orecchino di Perla” a Bologna che diventa un’icona. Noi invece non abbiamo
bisogno di icone da adorare ma di arte che ci faccia pensare. E questo è invece
quello che sta accadendo. Le opere prestate dalla Sicilia, come il Satiro di
Mazara, se comparato con altre statute ha senso. Se invece si prende un
oggetto, unico ed iconico, no. E a dimostrazione di ciò vi è il fatto che far
circolare le opere siciliane nel mondo non fa, poi, arrivare turisti in
Sicilia. L’assenza quasi totale, l’incapacità di produrre grande mostre in
Sicilia è molto chiara a differenza di regioni simili, per bellezza e
patrimonio, come la Toscana che, invece, allestisce eventi nel segno della
grande arte. Spero che non sia sempre così>.
Come
può la Sicilia salvare il suo patrimonio e guardare al futuro?
<Ci
vuole umiltà. E vorrei ricordare che l’articolo 9 della Costituzione venne proposto
da un siciliano, Concetto Marchesi, che era un grande latinista e rettore
dell’Università di Padova, poi senatore della Repubblica. Fu proprio lui ad
evidenziare come fosse necessario evitare che le regioni, a cominciare dalla
Sicilia, tenessero per sé il patrimonio e la sua gestione facendone strazio.
Con Aldo Moro, propose di evitare la regionalizzazione dei beni culturali. Se
oggi Marchese fosse vivo, direbbe: quanto avevo ragione>.
Isabella
di bartolo (articolo pubblicato sul quotidiano La Sicilia, riproduzione riservata)
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