giovedì 2 settembre 2021

Alfio Patti ed Elio Distefano: dialogo su Eretici, avventurieri e cospiratori




Gli otto poeti inseriti in questo saggio ci mostrano una cartina al tornasole di un'epoca interessante, spartiacque tra Rinascimento e Illuminismo. Un periodo tanto oscuro quanto preparatorio alla rinascita della ragione e della libertà di pensiero. Attraverso i loro versi conosciamo usi e costumi, luoghi e regole, politica e religione, giustizia umana e divina di quell'epoca, ma apprendiamo soprattutto i sentimenti che questi uomini-poeti hanno espresso con i loro versi pieni d'amore nei confronti della poesia. Questa era considerata, allora, un dono di Dio e come tale doveva essere onorata e coltivata, soprattutto condivisa.


Alfio Patti, scrittore, poeta e cantautore, dialoga con Elio Distefano, studioso e docente, per descrivere un libro che è un viaggio nel tempo, tra bellezza e oscurità. 

  • Un libro che parla di libertà, quella negata dalle circostanze e quella, per contro, ostinatamente ricercata e praticata da questi uomini, il diciottesimo “parto” letterario di Alfio Patti. Scritto, guarda caso, in un periodo di forzata reclusione, quasi una cattività, come la primavera del 2020: solo un caso che l’interesse per questi poeti sia sbocciato in un simile frangente, o piuttosto una scelta deliberata e consapevole?


  • - L’interesse per questi poeti è nato, in verità, circa 20 anni fa quando leggendo autori del passato avevo notato che alcuni di loro avevano avuto una vita rocambolesca. Per fare questo lavoro, però, occorreva tempo, concentrazione e ricerca. Cose che non avevo in quel tempo. Il confinamento per la pandemia, però, ha riacceso in me l’idea. Ho letto, quindi, le poesie di 34 poeti siciliani del Seicento di un certo spessore e ne ho trovati 8 che avevano vissuto la loro vita con fatica e sofferenze e avevano scritto, per questo, le loro poesie sulla propria pelle. Avevano avuto il coraggio di andare controcorrente, contro il pensiero unico di allora e fare delle scelte forti anche a costo della vita.


  • Il titolo del libro propone una triade di aggettivi molto forti, che non possono lasciare indifferente chi vi s’imbatta negli scaffali di una libreria, reale o virtuale: quale relazione si può stabilire fra questi termini? Si tratta di una climax ascendente?


  • - Sì, il climax ascendente ci può stare. Ho scelto questo titolo di getto senza una apparente considerazione ma già inconsciamente sapevo che un “eretico” fa delle scelte forti e che a causa di queste scelte la sua vita diventa un’avventura per sfuggire alle insidie e ai contrasti che ne derivano per sfociare, poi, in una cospirazione per abbattere quel sistema che toglie libertà e dignità agli uomini.


  • A mio parere, fra i termini contenuti nel titolo, è il primo, “eretici”, che li racchiude tutti e li suggella nel segno di una orgogliosa rivendicazione della propria individualità di fronte a chi li bolla come tali, poiché contiene in sé già nell’etimo l’idea di una scelta forte, lucida, coraggiosa, perdipiù in un tempo di strisciante servilismo e di avvilente mancanza di rispetto per la dignità umana. Sembra quasi di trarne la lezione che, quando la libertà e la dignità dell’uomo tendono ad essere soffocate (ed è una costante che, come un fiume carsico, riemerge molte volte nella storia, in modi diversi e a volte inattesi!) essere eretico voglia dire tout court essere poeta. Sei d’accordo su questa visione? Come la pensi a riguardo?


  • - Sono d’accordo. In quel contesto, ma anche oggi, la “parola” e la poesia restano le uniche forme rivoluzionarie per contrastare questo stato di cose. Mentre scrivevo il libro trovavo molte similitudini tra il Seicento e il nostro di tempo. Anche allora le pandemie per la peste e le quarantene con la caccia agli untori; siccità e conseguenti carestie (senza che esistesse il buco d’ozono); eruzioni devastanti e terremoti violenti, ma soprattutto la mancanza della giustizia; abusi di potere dei nobili e quello del clero mettevano in ginocchio quegli illuminati e colti dei “miei” poeti che hanno fatto della poesia e della conoscenza uno scopo di vita contribuendo alla nascita del futuro Illuminismo.


  • Questi poeti si sono espressi su diversi registri, da quello propriamente lirico a quello civile e politico, e perfino al burlesco. Quando si sente parlare di burlesco si pensa sempre allo spirito salace di certa poesia duecentesca toscana, come quella dell’Angiolieri. In una natura chiaroscurale come quella siciliana, quali tonalità assume il burlesco, secondo te?


  • - Il burlesco che ci ha spiegato l’ufficiale cultura peninsulare, e che è di grande prestigio per via dell’uso di ironia, parodia e comicità, si distacca da quello isolano siciliano. Esso ha una sua peculiarità. I poeti da me trattati hanno tutti prodotto poesie burlesche, d’amore e religiose. Ma qui il burlesco si tinge di un retrogusto amaro; di una tragicità greca che permette di “babbiàre”, cioè scherzare su un dramma mentre lo stesso autore “va a fondo”. Uno dei poeti chiede del vino agli amici mentre è in carcere. Lo fa non perché sia un ubriacone ma perché ha freddo dentro “i dammusi” e la poesia diventa un momento ridanciano, ma l’autore sta veramente languendo nelle patrie galere. Il burlesco permette ai poeti di attaccare i potenti strappando risate agli stessi interessati. Nel contempo i poeti dicono verità che altrimenti non potrebbero dire. Lo stesso procedimento il popolo usava con “Lu diri” nel periodo carnascialesco o a teatro con il “Cu’ nesci parra”, improvvisando.



  • A leggere i ritratti dei poeti scelti, con i numerosi excerpta dalle loro opere, sembra che essi, tutti uomini di vasta cultura, che si sono cimentati in numerosi campi del sapere e dell’arte, abbiano riservato uno spazio speciale all’attività poetica, utilizzando il verso come mezzo più immediato e personale per esprimere con forza i sentimenti più urgenti e spesso tempestosi che agitavano il loro animo, a volte come armi per ingaggiare una battaglia di libertà. Ti trovi d’accordo su questa definizione? 


  • - Sì, per loro la poesia era un’arma speciale. Oggi forse non più, ma allora la scrittura e la conoscenza era per pochi e gli stessi poeti si consideravano dei privilegiati. La poesia era per loro un dono e sapevano che andava alimentato e divulgato. La poesia sopravvive ai suoi stessi autori ed essi credevano che la liricità dei loro versi e il ruolo pedagogico della poesia avrebbe cambiato il mondo.  


  • Quando si scrive, che si tratti di personaggi di un romanzo o di uomini realmente esistiti, come in questo caso, è inevitabile specchiarvisi. Quale di questi poeti ritieni a te più somigliante e sotto quali aspetti e, viceversa, da chi e perché ti senti più distante?


  • - Io mi sono rivisto, come temperamento e carattere, comprese debolezze, in Michele Moraschino, il poeta spadaccino, sferzante del pericolo e accusato di eresia. Pur essendo amico dei gesuiti che tanto lo stimavano, venne incarcerato dai domenicani che detenevano l’amministrazione del Santo Uffizio. Patì senza colpe tre anni di carcere dove dovette lottare con gentaglia all’interno della stessa cella. Lui era di un’altra pasta. Fu liberato a seguito di un’ispezione inviata direttamente dalla Spagna. Riacquistò credibilità appena libero e continuò i suoi studi illuminanti e illuministici. Il poeta da me molto distante è Simone Rao, perché ambiguo, delatore ed ecclesiastico. Nonostante avesse tramato con una congiura contro il re di Spagna fu da Sua Maestà premiato prima come cappellano di Corte poi come vescovo di Patti. Gli altri rivoluzionari furono giustiziati. Rao incarna il suo secolo: ampolloso, ipocrita, dove la forma vinceva sul contenuto, in tutti i sensi.