martedì 18 febbraio 2020

Giuseppe Voza: "Il Teatro greco di Siracusa rischia di morire lentamente"



Il primo a lanciare il grido d’allarme sul “sovrautilizzo” del Teatro greco di Siracusa fu Giuseppe Voza. Era il 1996 quando l’archeologo descrisse lo stato in cui versava il monumento messo a rischio dall’usura del tempo, dai visitatori e dall’utilizzo di tecnologie e materiali estranei alla natura della pietra per l’allestimento degli spettacoli. Poi, nel 2004, rinnovò le sue preoccupazioni soffermandosi sul problema della “compatibilità” di ogni spettacolo con il “decoro” del monumento e descrivendo i rischi per il delicato sito. Oggi l’allarme di Voza ha trovato triste ragione nell’incuria che connota il monumento in attesa di un restauro di somma urgenza. 


Ma per salvare il Teatro greco occorre molto di più che un intervento tecnico. "Occorre comprendere la concezione della tutela di un bene monumentale che è unico", dice Giuseppe Voza, soprintendente emerito di Siracusa e direttore onorario del museo archeologico “Paolo Orsi” a cui diede assetto e forma raccogliendo in esso i tasselli della storia antica della Sicilia e non solo. Ed è proprio per comprendere la grandezza dell’architettura antica dell’Isola, che l’archeologo accenna alle ragioni per cui l’età greca raggiunse la sua akmè in due monumenti simbolo anche della Sicilia, coniugando perfezione tecnica e valore simbolico, sociale. 
"La civiltà greca si è espressa nel campo dell’architettura in maniera eccellente con due edifici particolari – dice Giuseppe Voza -: il tempio e il teatro. Il primo, emblema dell’architettura religiosa, è la casa della divinità, inaccessibile al popolo con la sua statua al centro della cella e il perimetro di colonne che rende l’edificio perfetto, autarchico perché indipendente dal luogo fisico in cui si trova. Un tempio greco non ha rapporto con l’esterno, sta bene in qualsiasi luogo: in una città, su un monte. E ciò è indice della sua perfezione. Un teatro, invece, no. Un teatro greco è parte del luogo in cui viene edificato". E così a Siracusa, come a Taormina, a Tindari, a Segesta: il teatro diviene un unicum con la cornice naturale che è parte stessa, viva, dell’edificio.


"Significa che il teatro è della gente che lo vive, si alimenta dello spazio che lo circonda – dice - Per questo isolare il paesaggio o alterarlo significa mozzare la testa a un teatro greco ed è per questa ragione che, in passato, ho tuonato a Siracusa contro le scenografie monumentali che fanno perdere il fascino dello scenario naturale che è parte del teatro stesso". 
Ed ecco perché lo spettacolo in un Teatro greco diventa occasione di fruizione, sebbene ciò non accade mai come Voza amaramente conferma. "Il tempio e il teatro sono l’espressione del genio creativo dei greci – dice il professore Voza -, e mentre il primo è coperto, il secondo no. Ed è questo che rende la sua costruzione più facilmente deteriorabile, attaccata dal tempo e dalla natura. Sebbene il Teatro greco di Siracusa sia stato scolpito nella roccia del Temenite, e abbia per questo un’anima costruttiva forte, resistente, è fragile. Delicato. Nonostante abbia subito le distruzioni ad opera di Carlo V e l’asportazione della sua pietra per realizzare le mura della città e, oggi, la sua cavea è ridotta allo scheletro, il Teatro greco di Siracusa ha conservato la sua geometria. La sua magnificenza. Prima di divenire una cavea di pietra, il Teatro era un altare al centro e la gente assiepata sul colle Temenite per assistere ai riti religiosi in onore di Dionisio il cui altare era nel cuore dell’orchestra. Come ad Atene, con i cittadini appollaiati sulle pendici dell’Acropoli, così a Siracusa. Solo dopo vennero realizzate le tribune di legno e, ancora dopo, le cavee lapidee scolpite con i sedili. La cavea non nasce con il piano dell’orchestra ma come luogo naturale che si adatta ad accogliere tutt’intorno gli spettatori e poi diventa il luogo della vita civile, della politica, dei processi. Un luogo non solo religioso ma della città viva".

Nessun teatro in Sicilia ha una storia come quella di Siracusa. "Ciò non significa – dice l’archeologo – mettere il Teatro greco sotto una campana di vetro, ma custodirlo, assicurarne una manutenzione costante e tramandarlo alle prossime generazioni. Il Teatro di Siracusa è un fatto unico, raro, eccezionale nel mondo dell’architettura teatrale. Ancora il suo contesto ha molto da dire e bisognerebbe continuare a scavare sulla terrazza del Temenite per riportare alla luce la maestosità di questo luogo sacro e vivo. E per regalare ai visitatori l’occasione di una fruizione vera, che dovrebbe protrarsi per qualche giorno alla scoperta del Teatro greco, della sua terrazza e poi della Latomie, dell’Ara di Ierone, dell’Anfiteatro romano che grazie a Bernabò Brea danno vita a uno dei parchi archeologici più importanti al mondo, unico nel contesto di una città moderna, contemporanea. Ed è invece incredibile occuparsi del Teatro greco solo in occasione degli spettacoli, dobbiamo proporre al mondo una fruizione vera di questo monumento e del suo contesto. Purtroppo a stento riusciamo ad avere un’idea di cosa fosse guardando dal basso la cavea per tentare di comprendere la costruzione divina". 


Voza ripete, ancora una volta, le sue riflessioni più volte avanzate alla città e alle sue istituzioni culturali. "Ripeto cose di cui non si parla mai – dice il soprintendente emerito -. Si parla del Teatro greco, della sua vita, dei tempi del suo utilizzo, del tipo di spettacoli da allestire. Tutti elementi importanti come è importante mettere in moto un fruttuoso turismo, ma su che cosa? Non una volta si discute del Teatro greco e della necessità di pianificarne la tutela e la manutenzione, dell’esigenza di un’opera di restauro costante che la natura della roccia, della quale è stata accertata la sua estrema vulnerabilità, rende improcrastinabile. È necessario attivare il previsto piano di monitoraggio degli elementi naturali e umani che aggrediscono il monumento, e individuare livelli di fruibilità del Teatro greco e delle attività teatrali. Di tutto questo non si parla. Ed è questo, invece, l’aspetto fondamentale per restituire ai posteri la più grandiosa rovina dell’antichità".
Isabella di bartolo
(riproduzione riservata)

domenica 2 febbraio 2020

Polpettine di orzo e cassata, ecco come mangiavano gli antichi Romani in Sicilia


Polpettine di orzo, bruschetta alle erbe, cassata di Oplontis e, da bere, acqua speziata e vino degli dei. No, non è un menu stellato dei giorni nostri ma alcuni tra i piatti che erano sulle tavole degli antichi Romani. Per averne un'idea basta andare alle porte di Noto dove si trovano i magnifici resti della Villa romana del Tellaro con i suoi policromi mosaici che narrano scene di caccia e, appunto, banchetti. 

E per leggere un menù ispirato alla tradizione Romana descritta nel “De re coquinarie” di Marco Gavio Apicio: un mondo di ricette profumate di spezie e preparate secondo procedimenti delicati: tra acqua allo zenzero al vino al pepe nero e miele, polpette di orzo alla patina o al libum di Catone, bruschetta Epityrum e Moretum, e persino una cassata nel segno dell’antica Roma.