domenica 20 novembre 2022

La piazza Navona catanese: ecco la Naumachia secondo Dario Palermo

 


Una piazza Navona catanese. E’ la nuova ipotesi degli studiosi davanti ai resti di quello che appare come uno stadio di epoca latina, proprio come quello costruito dall’imperatore Domiziano a Roma e divenuto oggi tra le piazze più note al mondo. Da secoli, si tenta di ricostruire il rapporto tra la Catania moderna e il suo più antico passato e proprio sulle orme di alcune ricerche, il professor Dario Palermo, archeologo tra i più noti esperti internazionali di cultura dell’Egeo e docente dell’Università etnea, ha scoperto un monumento destinato agli spettacoli che si nasconde tra le strade e la case di un rione popolare di Catania. “Nel XVI secolo – spiega Palermo - il medico ed erudito catanese Lorenzo Bolano, descrivendo i monumenti della città in un’opera andata perduta, ricordava la presenza di due grandiosi edifici destinati agli spettacoli: un ippodromo e una naumachia, vicini e visibili ai suoi tempi davanti alla porta delle Decime, lungo la cosiddetta via Occidentale”. Un luogo destinato alle corse dei cavalli, dunque, e un altro dedicato alle ricostruzioni di battaglie navali in bacini artificiali. Ma che fine hanno fatto questi edifici di età romana? Secondo la ricostruzione degli archeologici, i resti della porta delle Decime, nella cinta medievale di Catania a poca distanza da Castello Ursino e che era detta così perché vi si riscuotevano i dazi, sono ancora ben visibili accanto alla chiesa di San Giuseppe al Transito, in piazza Maravigna, proprio all’inizio della attuale via Naumachia il cui tracciato ripercorre quello iniziale della via Occidentale, importante asse di collegamento verso la piana etnea. L’intera area, con le sue rovine antiche, venne sommersa dall’eruzione lavica del 1669 ma, come ha scoperto Edoardo Tortorici, docente di Urbanistica romana all’Ateneo di Catania, l’ippodromo doveva trovarsi a 300 metri a ovest dal Castello Ursino. Nessuna traccia, invece, del secondo edificio da spettacolo: la Naumachia appunto; fino alle intuizioni di Palermo e del suo allievo Iorga Prato davanti alle immagini satellitari di Google maps che fotografano l’area. “Si notano tracce di un grande edificio rettangolare, orientato in senso est-ovest con il lato breve occidentale conformato a semicerchio nella classica forma dell’edificio da spettacolo antico – spiega Palermo -. Il fatto che l’andamento dell’arena del monumento sia perfettamente parallelo all’attuale via Naumachia, lascia pensare che la denominazione della via non sia affatto casuale”. Una scoperta delicata vista la mancanza di resti archeologici e l’assenza di tracce nella cartografia antica della città ma sostenuta da nuove osservazioni poiché ci si accorge che in mezzo alle casupole settecentesche, di nessun valore architettonico, che costituiscono la fronte meridionale della via Naumachia, vi sono strutture architettoniche che stridono con il contesto modesto di case popolari attorno ai cortili. “Piccole abitazioni di singolare bellezza di fattura e pregio – prosegue Palermo -realizzate in pietra lavica, che non sono mai state riconosciute come antiche perché hanno la forma tipica delle “cantunere”, ovvero cantoniere elementi che segnano i quattro angoli dell’edificio, di cui la Catania settecentesca è ricchissima. A ciò si aggiunge un altro elemento di grande interesse che testimonia il riutilizzo dell’area in età medievale: nella facciata occidentale del passaggio che da via Naumachia conduce al cortile Fuochisti, si nota un bell’arco settecentesco in pietra lavica con mascherone, che poggia sul piano moderno, comparso di recente a seguito del crollo di un tramezzo, con un bel portale ad arco perfettamente conservato in pietra lavica,che doveva poggiare ad una quota sensibilmente inferiore a quella del piano moderno, di almeno un metro, indicandone così una messa in opera prima dell’eruzione del 1669”. Tutto questo svela la presenza di un grande edificio da spettacolo posto parallelamente all’attuale via Naumachia circondato a nord da un muro con portici ad arcate sovrapposte, che coincide con l’attuale lato meridionale della strada moderna; e con un’arena che doveva iniziare a una decina di metri di distanza. Secondo la ricostruzione, la scomparsa di questo edificio dovette iniziare nel Medioevo quando vennero costruite le mura della città e si decise di distruggerlo per impedire che venisse usato come comoda via la scalata alle mura.

Gli archeologi non si sbilanciano sull’identificazione di questo grandioso monumento destinato agli spettacoli come una Naumachia per battaglie navali su esempio di Roma e della sua piazza Navona a cui i catanesi volevano ispirarsi per il desiderio di esaltare le loro virtù belliche e marinaresche. Come spiega un’altra archeologa, Francesca Trapani, potrebbe trattarsi di un piccolo stadio di circa 200 metri di lunghezza e 135 di larghezza. “Dimensioni che si addicono bene a una città di provincia quale era Catania – dice Dario Palermo –. L’edificio potrebbe essere del II secolo dopo Cristo durante un periodo di rinascimento cittadino che vide protagonista la città etnea.

Un santuario della dea Madre scavato nella roccia dell'antica Akrai: nel sudest della Sicilia il più antico del mondo greco

 

E' il più grande santuario scolpito nella roccia di tutto il mondo greco e si trova nel sito dell’antica città di Akrai, nei pressi di Palazzolo Acreide. Dodici immagini ricavate nella roccia della città che Siracusa fondò nel 663 avanti Cristo e di cui resta anche un suggestivo teatro. Dodici simboli di una religiosità millenaria legata al culto della terra, delle messi e della fecondità in un luogo intitolato ai Santoni che prende il nome dalle effigi ricavate nella roccia che rendono il sito di Palazzolo uno dei più vasti tra i complessi religiosi dedicati alla dea Cibele. E’ questa la stessa divinità che i Romani chiamavano “Magna mater”, la signora della natura e di tutti gli esseri viventi.

Il sito archeologico è un’area ricca di fascino e di mistero tanto da ammaliare il principe di Biscari e Jean Houel e, fino ai giorni nostri, l’area è oggetto di studi da parte di archeologi ed esperti di culti antichi. Dopo numerose polemiche e una lunga attesa, la Regione ha stanziato 1 milione e mezzo di euro che servirà per la valorizzazione e la fruizione di questo sito archeologico che, dopo il restauro, sarà aperto al pubblico anche al tramonto con visite serali che ne esalteranno la suggestione. A questa somma si aggiunge anche lo stanziamento di 845.000 euro per la valorizzazione e la fruizione del Teatro antico di Akrai.

 
 
 


 

Per la sua vastità e bellezza, il sito dei Santoni rappresenta un unicum al mondo secondo gli studiosi tra cui si annovera Luigi Bernabò Brea, l’archeologo che individuò nell’area di Palazzolo uno dei complessi cultuali che contribuirono a diffondere il culto della dea Cibele nel mondo greco-romano.

Numerose le leggende popolari legate al sito archeologico come ricordava, nel 1777, il pittore-viaggiatore Jean Houel che si rammaricava del fatto che alcune statue fossero state cancellate “più della mano degli uomini che da quella del tempo. I pastori dei dintorni prendono talvolta le pietre e, per passatempo, senza cattive intenzioni, colpiscono le teste delle figure senza rendersi conto di quello che fanno”. Simili episodi narrano anche gli abitanti di Palazzolo che ricordano l’odio di un contadino proprietario del terreno nei confronti di queste statue: l’uomo, infatti, stanco di dover sopportare frequenti visite da parte di curiosi e appassionati di storia e archeologia, decise di sfigurare il volto delle statue a colpi di ascia danneggiandoli per sempre. Tuttavia non riuscì nel suo intento e oggi l’area dei Santoni resta uno dei luoghi più interessanti dal punto di vista storico e archeologico.

 

(articolo di Isabella di bartolo)

Il primo chef dell'antichità? Era un siracusano

 

Lo chiamavano il “Fidia dei cuochi” e lui, Mithekos di Siracusa, ne era orgoglioso. Le fonti antiche lo descrivono come il primo autore di un trattato di cucina della storia e la tradizione gastronomica degli abitanti della Magna Grecia è legata proprio a questo cuoco siracusano del V secolo avanti Cristo. Oggi, storici e pasticceri, vanno a caccia delle sue ricette per ricostruire la storia del gusto antico e dell’antica Sicilia di età greca. Il primo risultato è nel segno della dolcezza: una torta ispirata alle sue ricette nata dall’unione di ricerche d’archivio e sperimentazione ai fornelli. 


 

“Le testimonianze storiche sulla cucina più antica sono scarne – dice Sergio Cilea, storico e responsabile del Fondo ambiente italiano aretuseo – ma molto preziose. Le fonti ci tramandano il nome di Mithekos, cuoco di Siracusa, citato dallo scrittore Naucrati di Alessandria, vissuto in età imperiale a Roma”. Di quest’ultimo sappiamo che nel II secolo dopo Cristo si trasferì dall’Egitto a Roma per lavorare come bibliotecario di un ricco patrizio e che scrisse un’opera monumentale prendendo come pretesto un banchetto fra intellettuali. Naucrati cita il cuoco aretuseo indicandolo come autore di un Manuale di ricette e proprio su di lui si sono concentrate alcune ricerche in occasione delle Giornate d’autunno del Fai che, nel Siracusano, hanno riaperto al pubblico il santuario rupestre della dea Cibele nel sito dell’antica Akrai, la città fondata dalla Siracusa greca. Proprio per celebrare questo evento, abbiamo proposto a una storica pasticceria di Palazzolo di creare un dolce dedicato alla dea greca dopo aver ricercato quali potessero essere gli ingredienti presenti in Sicilia all’epoca del culto di Cibele consultando anche le fonti relative a Mithekos. Da questo studio è nata la torta Cibele a cui hanno lavorato i pasticceri della famiglia Monaco, titolari di una storica istituzione dolciaria di Palazzolo, e che è diventata una delizia ricercatissima: grani antichi, ricotta addolcita con miele e screziata di basilico, noci per omaggiare il grande albero che fa ombra al santuario di Akrai per un dolce che riecheggia il passato greco e lo fa rivivere. Un dolce che potrebbe essere certo annoverato nel manuale di Mithekos”.

Al cuoco siracusano era legata anche una scuola di cucina considerata tra le più celebri dell’antichità e dove si formavano alcuni tra i più grandi chef dell’epoca, corteggiati dalle più ricche famiglie della Roma imperiale per le quali preparavano banchetti stravaganti, piatti elaborati e sorprendenti che hanno lasciato il segno nella cucina siciliana moderna. Fu suo il merito di diffondere la cucina siracusana, e siciliana, nel resto della Grecia sfruttando le delizie che solo la sua terra produceva. “Basta cercare nelle nostre biblioteche – dice Sergio Cilea – per trovare memorie sconosciute come nel caso della cucina antica. Antichi ricettari, erbari siciliani, libri di letteratura o semplici citazioni come nel caso di Mithekos da Siracusa, possono darci preziose informazioni non solo sul modo di cucinare i cibi ma soprattutto sugli ingredienti utilizzati nella preparazione e che erano presenti in passato nel nostro territorio. Il ritorno alla coltivazione dei grani autoctoni, le farine di grano russello o tumminia esclusive delle nostre antiche ricette, sono tornate ad arricchire i cibi siciliani. Alcuni prodotti di un tempo sono oggi scomparsi come il Mespilus germanica, in Sicilia chiamato Nespola d’inverno donata ai bambini durante il periodo natalizio. Da oltre 2000 anni, invece, sulle tavole si trova l’origano di Siracusa, che cresce spontaneo esclusivamente sulle balze del quartiere della Neapolis: una specie introdotta in tempi antichissimi dai greci, diffusa oltre che a Siracusa solo in Grecia e Turchia”.

Il cibo, si sa, è legato alla terra, alle tradizioni, al popolo. Come mangiavano gli antichi significa anche capire in che modo vivevano perché il banchetto, in ogni epoca e società, è un momento di condivisione, di incontro e assume caratteristiche che vanno oltre al pasto e diventano più ampie, culturali, ludiche e politiche. In tal senso, assume un significato profondo il rimprovero che Platone faceva ai siracusani. Agli abitanti dell’antica Siracusa, infatti, piaceva la buona tavola, il sollazzarsi nei lunghi banchetti e il pasteggiare lussuoso. E il filosofo greco non condivideva la loro abitudine di concedersi troppi vizi a tavola, di cucinare in maniera troppo sofisticata e di usare troppi intingoli: usanze che stridevano con l’educazione di Atene, i principi di moderazione e rigore. Platone però suggeriva di degustare il vino con i dessert e, tra questi, soprattutto i fichi più dolci.

Ma cosa mangiavano gli antichi siciliani? Lo racconta un altro cuoco siciliano, Archestrato di Gela, che visse nel IV secolo avanti Cristo e scrisse un poema culinario dal titolo “Hedypatheia” ovvero “Vita di dolcezze”, in cui sono descritte ricette, modi in cui mescere il vino e prelibatezze condite con olio, aceto, vino, erbette, semi di cumino e sesamo. Archestrato preferiva il pane con farina d’orzo considerato superiore a quelli preparati con altre farine e suggeriva di accompagnarlo con il formaggio che si produceva da sempre specie nelle zone dei monti Iblei.

Ancora un altro siracusano, Labdaco, nel III secolo avanti Cristo si distinse per essere uno dei più famosi cuochi dell’epoca ma anche per aver fondato una scuola culinaria a cui erano iscritti anche allievi provenienti da altre città della Grecia a dimostrazione di quanto fosse nota la cucina dell’Isola greca. 

 

Articolo di Isabella Di Bartolo (pubblicato sul quotidiano La Repubblica, diritti riservati)

 

 

 

martedì 15 novembre 2022

Iulia Fiorentina, la bimba "santa" di Hybla mayor torna a casa. Convegno a Paternò

Una bimba di 18 mesi morta a Paternò nel 320 dopo Cristo e sepolta a Catania, nel cimitero dei martiri. E' la storia che racconta l'epigrafe di Iulia Fiorentina rinvenuta nel 1730 a Catania e oggi esposta al Louvre di Parigi: una stele di marmo di cui una copia è tra le collezioni del Castello Ursino etneo. Se ne parlerà a Paternò nel corso di una conferenza che sarà anche occasione di studio e riflessione sulla comunità cristiana etnea e la città di Hybla. 

 


Il 17 novembre , alle 16,30, nella chiesa (ex Benedettina) di Santa Maria della Valle di Josaphat, sull’acropoli di Hybla a Paternò, – ospiti del rettore della chiesa, padre Salvatore Patanè – si ritorna a parlare di Iulia Florentina e lo si fa con la prestigiosa presenza della prof.ssa Cristina Soraci, docente di Storia della Sicilia Antica dell’Università degli Studi di Catania e del prof. Vittorio Rizzone, docente di Archeologia cristiana alla facoltà Teologica di Sicilia nonché Abate di San Martino delle Scale. Le conclusioni dell’incontro saranno a cura di Mons. Luigi Renna, Arcivescovo Metropolita dell’Arcidiocesi di Catania. Modera l’Arch. Francesco Finocchiaro del direttivo Nazionale dell’Archeoclub.

 

L’evento è organizzato dal XII Vicariato Paternò-Ragalna coordinato da Padre Salvatore Alì e dalla sezione Ibla Major dell’Archeoclub d’Italia presieduta dall’arch. Angelo Perri con il patrocinio dell’Assemblea Regione Sicilia – da poco presieduta dal paternese on. Gaetano Galvagno e dall’Arcidiocesi di Catania.

L’evento ripropone un tema interessante, quello della figura di Iulia Florentia, bambina cristiana morta a Hybla ma tumulata a Catania in odore di santità. Molte le implicazioni di questa ricerca che riappare a Paternò dopo circa sessant’anni.Certamente c’è la necessità di fare luce sulla storia dei primi cristiani che abitavano l’antica città di Hybla e questo permette anche di collocare nel tempo e con una certa certezza, il momento in cui la città, si chiamava ancora Hybla.

L’incontro è anche l’occasione per presentare alla comunità un’iniziativa che il Kiwanis Club Paternò, sta preparando e che non vogliamo anticiparvi, tutto sarà svelato all’interno della conferenza e sarà un colpo di scena per tutti.

Il Presidente Perri dichiara: “Vogliamo ancora una volta sottolineare che lo studio della fase storica di transizione tra il paganesimo e il cristianesimo è la chiave di volta per capire non solo l’origine del nome ma l’intera struttura della forma della città e per questo rilanciare gli studi e le ricerche che possano superare i paradigmi consolidati per esplorare nuovi territori culturali. La mobilità storica, la forma della città, le stratificazioni del paesaggio, la sacralità, il commercio, la politica e la dimensione strategica militare oltre che alla fertilità di questa terra devono essere riconfigurati in chiave sistemica e ricollocati nel più ampio scenario regionale.”