Se
la Sicilia non auto-gestisse il suo patrimonio culturale, figurerebbe con
dignità tra i 10 luoghi della cultura più visitati nel 2015 in Italia. E
sarebbe all'ottavo posto con il Teatro antico di Taormina che chiude l'anno con
quasi 676mila presenze: 100mila in meno del Museo Egizio di Torino, fresco di
restyling e promozione internazionale. Numeri ben lontani dai siti-star del
2015: Colosseo in testa con 6 milioni e mezzo di visitatori, Pompei con quasi 3
milioni di presenze e gli Uffizi con quasi 2 milioni, seguiti poi dalle
Gallerie dell’Accademia di Firenze (1 milione e 400mila presenze), il Circuito
di Boboli e Argenti (863mila). Dopo il gioiello egizio del Piemonte seguono la
Venaria Reale, la Galleria Borghese e la Reggia di Caserta: tutti attorno ai
500mila visitatori in un anno. Più o meno come il Parco archeologico di
Agrigento (540mila presenze), e il Teatro greco di Siracusa (490mila). Numeri
significativi che mostrano la forza, non sostenuta dalla politiche di gestione
pubblica, di un patrimonio unico al mondo.
I
paragoni tra il resto d’Italia e la Sicilia, quando si parla di musei e
monumenti, sono complicati. Lo statuto speciale rende l'Isola un pianeta
solitario in termini di gestione dei beni culturali con tutte le conseguenze di
luci e ombre che questo comporta. I numeri rosei dei musei italiani e il trend
in crescita con 43 milioni di visitatori per 155 milioni di euro di incassi, confermano
come il turismo sia un volano economico strategico per la Penisola e faccia
rima con la crescita culturale della popolazione che ha invaso siti
archeologici e strutture museali in occasione delle domeniche gratuite volute,
con forza, dal ministero di Dario Franceschini per imitare il modello virtuoso
europeo e non solo. Ma il divario tra i dati nazionali e quelli regionali
confermano anche l'esigenza di rivoluzionare un sistema gestionale pubblico che,
in Sicilia, non funziona. Un vulnus culturale e politico su cui gli addetti ai
lavori si soffermano da tempo a partire da Giuliano Volpe, presidente del Consiglio
superiore dei beni culturali della Repubblica, il quale aveva proprio
evidenziato la corsa a due velocità tra Italia e Sicilia in termini turistici-culturale
davanti alle tante, troppe occasioni perdute di musei chiusi per carenza di
personale, di monumenti dimenticati, di siti archeologici fuori dai percorsi
turistici. Lo aveva evidenziato davanti ai numeri in crescita della Valle dei
templi di Agrigento, unico Parco archeologico autonomo della Sicilia così come
prevede la legge regionale del 2000 nata proprio per evitare lungaggini
burocratiche e sprechi di risorse, e davanti ai numeri in triste calo di
piccoli musei slegati da una programmazione unica e una promozione adeguata e
contestuale. Volpe parla di fallimento del modello Sicilia che, invece,
racchiude in sé l’accentramento gestionale dei territori con le Soprintendenze
provinciali. Ma resta indietro con tutto il resto. Un fallimento che anche
Salvatore Settis aveva evidenziato auspicando l’eliminazione dell’autonomia
siciliana per salvare il salvabile e su cui più volte Giovanni Puglisi,
presidente della Commissione nazionale Unesco e rettore dello Iulm, si è
soffermato chiedendo uno scatto di orgoglio e appartenenza dei siciliani al
proprio patrimonio.
La
strada, in realtà, per guardare avanti è tracciata in parte. Ma resta sulla
carta. Fermi, bloccati i Parchi autonomi archeologici che consentirebbero di
evitare le procedure farraginose per partecipare a bandi o proporre idee di
gestione più moderne. In fase di avvio le sponsorizzazioni private per restauri
et similia ancora, però, lontane dalle agevolazioni previste dall’Art bonus
nazionale. Fermi, bloccati i propositi di svecchiare i sistemi museali che
umiliano la meraviglia di luoghi siciliani come il Museo civico di Polizzi con
i suoi 400 euro di incassi o il Castello a Mare di Palermo con 2 visitatori in
un anno. E fermi, bloccati sono anche i fondi derivanti dal 30% dei ticket di
accesso a siti e musei che la Regione deve concedere ai Comuni per la cura e la
promozione dei siti stessi. Le colpe, come sempre, sono tante e diverse a
partire proprio dalla vicenda sbigliettamento destinato ai Comuni, che ha
spinto la Regione a rivedere le convenzioni davanti alle modalità di spesa di
queste somme con cui alcuni sindaci e assessori siciliani, fino a poco tempo
fa, finanziavano sagre invece di pulire i monumenti dalle erbacce.
La
Sicilia non partecipa alla festa per il boom del turismo culturale in Italia
nonostante chiuda il 2015 con un aumento di presenze e attende nel 2016 un
incremento di incassi di circa 2 milioni di euro nei suoi siti e musei. E non
lo fa perché il rilancio passa anche da una modernità di pensiero e non solo dai
150 milioni di euro di fondi europei a cui la Regione mira per far crescere il
settore. I musei siciliani sono belli, bellissimi ma di vecchia concezione,
slegati tra loro, senza apporto di nuove generazioni e senza desiderio di
aprire le porte al futuro come il presidente Volpe commentava davanti al
paradosso del museo archeologico “Paolo Orsi” con il suo boom di presenze
(60mila turisti per un totale di 180mila euro di incassi) che sembrava uno
scherzo della matematica davanti ai 550mila del Parco della Neapolis, a due
passi dal museo siracusano. Qualcosa, certo, non funziona.
Per
gestire il patrimonio si attende una rivoluzione nel segno della modernità e
dello snellimento burocratico. Una rivoluzione forse lontana dai concorsi per
manager internazionali destinati ai grandi musei come accaduto quest’anno in
Italia, ma necessaria per tentare di allontanare la politica dal patrimonio.
Che sembra un’utopia davanti al valzer degli assessori regionali, alle nomine
politiche e alle annose polemiche su custodi e personale, ma diviene
indispensabile per salvare l’identità siciliana che solo i luoghi di cultura
rappresentano.
Isabella
di bartolo (articolo pubblicato su La Sicilia, riproduzione riservata)
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