Un giallo siciliano in salsa archeologica si snoda tra Taormina e Palermo, passando per l’Inghilterra e la Germania. Tra il 1865 e il 1876, un contadino di Giardini Naxos, tale Moschella, dichiarò di aver scoperto un tesoretto di piccole statue lavorando la terra nelle campagne di Mistressa, alle spalle del paese. Figurine buffe, strane, con iscrizioni indecifrabili e pose fantasiose. “Monumenti d’arte sconosciuta” come vennero chiamati dagli appassionati dell’epoca che facevano a gara per acquistarle e che, fino ad oggi, fanno parte delle collezioni del British museum, dell’Istituto archeologico Germanico di Roma e del museo Salinas di Palermo.
All’epoca infatti, Taormina e l’area dell’antica Naxos erano mete indiscusse del Grand tour dei viaggiatori che, dalle ricche città d’Europa, giungevano in Sicilia per scoprire i resti dell’antica civiltà. E fu proprio a questi turisti d’eccezione che il contadino vendette, con grande fortuna, i suoi buffi ritrovamenti con il sostegno di archeologi di grande fama. <Eppure erano autentici falsi – dice Flavia Frisone, docente di Antichità greche all’Università del Salento – che circolarono nel mercato archeologico per oltre un decennio, nella metà dell’Ottocento. Un affaire che ebbe grande successo grazie alla presenza attiva di Francesco Saverio Cavallari il quale, giunto dal Mexico e nominato ai vertici della Direzione delle Antichità di Sicilia, già nel 1865 aveva perorato l’acquisto da parte della Regia Commissione per le Antichità e Belle Arti di reperti archeologici provenienti dalla collina di Mastressa>.
Non solo, due anni dopo, Cavallari pubblicò una relazione certosina sulla presunta area archeologica di Mistretta, sui pezzi rinvenuti descritti con precisione dando, così, pieno riconoscimento scientifico al ritrovamento del contadino. Il direttore delle Belle arti accennò pure allo stile rozzo dei manufatti che, però, ricondusse alla popolazione dei Siculi che in quest’area dell’Isola avevano vissuto. <Ma un ruolo decisivo, a favore dell’autenticità di quegli strani oggetti – prosegue la docente - giocava la presenza delle iscrizioni. Quello stesso elemento che, quasi 150 dopo, rivelerà la beffa messa in piedi dallo scaltro contadino con il sostegno di qualcuno ben più scaltro di lui. Quando, infatti, nacque qualche dubbio sulla vera natura dei reperti, Cavallari stesso volle eseguire uno scavo archeologico nel campo di Mastressa per fugare qualsiasi perplessità e scrivere persino nuova, molto discutibile, pubblicazione. Ma qualcosa non funzionò e quando, nel 1875, il contadino chiese alla Commissione di antichità e belle arti il permesso per vendere altri pezzi al museo Salinas, l’istituzione disse no. Moschella trovò comunque altri acquirenti: diplomatici inglesi, antiquari e pseudo-venditori d’arte. Insomma, fu messa in piedi una piccola industria del falso di cui 100 oggetti sono giunti sino ai nostri giorni ben nascosti nei magazzini dei musei che li acquistarono>. A svelare l’affare furono le iscrizioni incise sui reperti che, si scoprì poi dopo, ricopiavano i caratteri dell’iscrizione scoperta in quegli anni al Ginnasio di Taormina e altre incisioni antiche. Il contadino, da analfabeta, ricopiava a modo suo l’alfabeto antico e riproduce in caratteri italici anche motti dell’epoca. <Fu Mommset che gridò allo scandalo – dice la docente Frisone – e Giuseppe Fiorelli, allora alla guida del museo di Palermo, disse che mai questi oggetti sarebbero stati visti da alcuno. Lo studioso non voleva in alcun modo che quest’arte falsa potesse offendere il museo Salinas con le sue collezioni tra cui spiccava l’arte arcaica delle metope di Selinunte. Di questi oggetti non si seppe più nulla fino a quando, negli anni Sessanta, un archeologo inglese impegnato a studiare i pezzi del British museum, rinvenne gli strani reperti tra le collezioni nei magazzini; negli anni Novanta, poi, uno studioso tedesco pubblicò la descrizione di quelli inediti conservati all’Istituto Germanico di Roma e fu il primo a capire che facessero parte di un meccanismo ben congeniato dove le iscrizioni erano il punto forte e debole allo stesso tempo. Mancava uno studio preciso sul gran numero di pezzi custoditi al museo di Palermo perché inaccessibili e nascosti. Così, con l’Università di Lecce abbiamo curato un progetto sui falsi coinvolgendo l’Istituto d’arte di Parigi, culminato in un convegno con i pezzi siciliani tra i protagonisti>.
Isabella di bartolo (riproduzione riservata)